Ricordo di Giorgio Morandi
La sua casa mi ricordava moltissimo quella di mia zia Onorina a Suzzara. Finestre chiuse per tenere fuori il caldo e il mondo, solo il tic-tac del pendolo. Tutto era immobile. Nel suo studio si poteva comprendere il significato metafisico della polvere. Spesso andavo a trovarlo in via Fondazza nei pomeriggi dell’estate e nella penombra della cucina mi parlava di Piero e dei Carracci. Teneva appeso nella camera da letto un bellissimo disegno di Seurat.
Giorgio Morandi, Èlevage de poussière
Rose secche, conchiglie raccolte dentro a una ciotola, libri appoggiati a terra. Un orologio a muro dove il vetro impolverato rende opache le ore. Su una mensola un portacandele. Contro la parete, appesi a un chiodo, un termometro, uno specchio, un orologio da tasca. Racchiuso in una cornice un frammento di pergamena miniata.
Qua e là piccoli tavoli di legno disposti a guisa di teatrini riunivano vasetti, bottiglie, tazzine, boccette, brocche, fiale dai colori tenui ricoperte da uno strato di polvere. Clessidre, filtri di una farmacia celeste. Una stufetta a carbone, una branda, la finestra schermata per sfumare e rendere delicata l’ombra. Incontrato di colori rappresi, accumulati nel tempo, un cavalletto a treppiede, quasi strumento per un lentissimo martirio.
Fiori di carta, foglietti ingialliti fissati contro le pareti. Pennelli, stacci intrisi di colore. Annerite dalla polvere e dagli anni sulle pareti impronte di quadri. La casa di un bambino, con raccolte cose fatte di tutto e di nulla. Dentro una fiala l’universo. Una finestra che guardava su un orto, una lampada, un monaco, il suo filosofico deserto.
Mi aveva fatto salire su quella navicella, ora naufragata per sempre, il pittore Gianni Poggeschi, dolce ombra, un pomeriggio di giungo del 1959.