Siamo sempre stati intolleranti?
Diciamo subito che gli antichi non si facevano tanti problemi. Al massimo, i più accondiscendenti invocavano una vago libero arbitrio ma niente di più. A quei tempi la verità esisteva, era un dato di fatto e non veniva messa in discussione. I problemi nacquero più tardi quando la Verità non fu più unica ma doppia, tripla. E si sentì il bisogno di inventarsi qualcosa per evitare di scannarsi a vicenda.
Con una sintesi davvero estrema si può tracciare così la genesi di un concetto, la tolleranza, da molti elevata al rango di virtù di cui è impregnato il nostro vivere civile. Ma la tolleranza ha una vita relativamente breve, la stessa età più o meno dello stato moderno. Perché qui per la prima volta si è dovuto affrontare il dilemma del convivere con l’altro che sbaglia, ma che non si può correggere, con chi erra ma ne ha tutto il diritto. Insomma con chi crede in un Dio differente dal tuo.
Un monaco agostiniano, nell’ottobre del 1517, segnò il punto di rottura del sistema religioso e politico. Con la nascita del movimento di Martin Lutero, si ruppe la coesione di un solo credo religioso e si fece largo il diverso, colui che non condivideva la stessa fede nella chiesa di Roma, nel suo magistero e nei suoi dogmi. Così con l’apparizione nella sfera politico-religiosa del diverso, si presentò il problema di come trattare l’uomo nuovo, il protestante. La persecuzione stava già dando i suoi pessimi frutti.
“Signori” disse Michel de l’Hopital, il cancelliere della Regina davanti agli stati generali del 1591 “il compito del Re non è quello di cercare la giusta religione, ma di garantire la pace dello Stato”. Fu l’inizio della tolleranza invocata per motivi meramente pratici, di pace sociale, che sfociò di lì a poco nei famosi trattati di Nantes.
D'altronde chi garantisce che la Verità sia una sola? In campo religioso la verità è soggettiva, pensava Locke: come non si può giustificare la verità assoluta delle proprie convinzioni così non si possono bollare come errori le opinioni differenti dalla propria. Infatti aggiunse Voltaire “la tolleranza è la necessaria conseguenza della comprensione della nostra imperfezione umana. Errare è umano e a noi questo capita continuamente. Perciò perdoniamoci gli uni gli altri le nostre follie”.
Insomma tutto risolto e amici come prima? Mica tanto. Perche la logica umana a volte ha la necessità di affermare e tener salda una verità assoluta. Se è vero come è vero che il sole sorge ad est e tramonta ad ovest come posso tollerare chi dice il contrario? Se credo – quindi ne ho la netta convinzione – che esistano più divinità come posso tollerare chi ne adora una sola? Se fossi davvero tollerante accetterei anche solo per un attimo che il sole possa sorgere ad ovest così come che Dio sia un solo. Ma violenterei la mia coscienza. Come se ne esce?
J.S.Mill provò a risolvere il paradosso eleggendo l’autonomia del singolo come bene ultimo: tollero le tue opinioni, anche se considerate sbagliate per salvaguardare la tua libertà anche di credere o pensare cose errate. Ma anche per Mill a tutto c’è un limite. Il filosofo inglese porta ad esempio la schiavitù volontaria: è intollerabile sopportare chi con le proprie azioni lede la propria autonomia e libertà. Il che aggiornato ad oggi, ha non poche implicazioni.
Ma per concludere, cercando ora di mettere in pratica quanto fin qui detto, applichiamo la teoria ad un caso concreto che inevitabilmente genererà un paradosso. Eccolo: il non fumatore, salvaguardata la sua sacrosanta libertà a non essere intossicato, deve tollerare chi fuma? E allo stesso modo, il fumatore, conscio dei danni del fumo, può invocare sulla sua scelta di intossicarsi i polmoni, la tolleranza altrui? Bella domanda di cui affidiamo la riposta ad un incallito fumatore di pipa.
Diceva Sandro Pertini: “Dai fumatori si può imparare la tolleranza poiché tollerano anche i non fumatori”.