Turner. Cinquanta sfumature di giallo
Eterna è la disputa, nella gerarchia tra le arte visive, tra Cinema e Pittura. Da un secolo abbondante ormai decine di prolusioni accademiche rivendicano il primato dell’arte del disegno. D’altro canto non possiamo dimenticare che molti critici della settima arte hanno preso il loro “patentino” catalogando, con dovizia di particolari, le citazioni pittoriche più o meno colte che sono riusciti a cogliere nelle loro analisi.
In questo gioco di specchi merita almeno una menzione Carlo Ludovico Ragghianti. Lo studioso toscano arrivò ad identificare il linguaggio cinematografico come il modello universale per poter riscrivere e rileggere tutta la storia dell’Arte. L’immagine in movimento, che sintetizzava dal punto di vista tecnico ed estetico tutti i modelli figurativi della tradizione, non poteva non rappresentare che un nuovo punto di partenza. Fu così che nacque il “critofilm”, un format di alta divulgazione che ancora oggi riveste un particolare fascino. Oltre all’ambizione della sfida mantiene, dopo più di mezzo secolo, il gusto dell’epoca in cui venne elaborato.
L’ultima opera del regista Mike Leigh, Turner, è dedicata agli ultimi anni del maggiore pittore britannico del XIX secolo. Raccontare il romanzo della vita degli artisti è un luogo comune dall’epoca della Controriforma. Da quando il caro Vasari, mediocre pittore ma intelligente uomo di palazzo, nel suo catalogare gli aneddoti dei grandi artisti toscani di un’epoca irripetibile, ha posto le basi - da buon direttore artistico ante litteram -di quella che viene ricordata come la prima forma moderna di critica d’arte. Con tutti i suoi annessi e connessi ideologici, culturali e politici il Vasari intuì che era fondamentale iniziare a “vendere” la vita degli artisti in una prospettiva leggendaria. L’eterna tensione tra Artista ed Opera ha creatocosì il mito più duraturo della storia dell’arte. Un modello ancora oggi radicato e diffuso, che ha plagiato la critica per secoli. Un’eredità che ritroviamo sia nella prospettiva romantica dell’artista dedito al sublime, sia nelle varie declinazioni di scapigliatura degli ultimi due secoli. Dalle gallerie di Parigi alle “factory” di New York.
Mike Leigh finalmente ci libera da questo pesante fardello. La caratterizzazione del genio pittorico nazionale inglese non ha bisogno di queste smancerie. Qui non c’è traccia del Vasari. Con Mike Leigh siamo più vicini al diario autobiografico del Pontormo, il genio manierista che annotava con precisione, sui suoi registri, le minzioni, le funzioni corporali ed i pasti frugali. Per il Pontormo non meritava annotare un maggiore approfondimento sulla sua opera. Una pagina così ermetica non la troviamo neppure nel minimalismo di fine novecento. Neppure Bukowski è stato tanto estremo, nella sua pagina, quanto Pontormo.
La dedizione di Turner nella ricerca di nuovi orizzonti per la sua arte è mostrata nel film come un’esperienza radicale. Il grande paesaggista che per primo riuscì a scomporre la luce (come scrivono da decenni i bignami) non è certo una figura carismatica negli ambienti culturali londinesi d’inizio XIX secolo. Appesantito anche da una fisicità respingente, qui perfettamente caratterizzato da Timothy Spall, si muove goffamente tra l’Europa, la campagna inglese ed i salotti londinesi. Questo iter che ha veramente poco di epico, frutto di una dedizione ossessiva e solerte, ci rivela quanto il suo percorso sia stato in anticipo con i tempi. Illuminando i suoi scorci di una tonalità gialla dominante sempre originale nel prisma delle sue sfaccettature, intuisce quella che sarà la fortuna degli impressionisti nella generazione successiva. E sappiamo tutti quanta fortuna critica abbiano avuto i ragazzi di Parigi dall’alto delle loro mansarde.
Turner che grugnisce, che non riesce quasi mai ad esternare un sentimento, che si mostra quasi come “il Grinta” della pittura, è incredibilmente lo stesso cheper primo dona al suo colore preferitouna dignità espressionista. La tonalità deve leggere l’anima di un paesaggio, non riprodurre freddamente i colori che la luce propone alla Natura. E quando l’Accademia (che per sua natura non può non essere che “epigonale”) lo rifiuta definitivamente, Turner arriva per ripicca ad un passo dall’astrattismo. Potrebbe vendere l’anima al diavolo ad un mercante e trascorrere una vecchiaia agiata. Ma sarebbe stato incoerente per chi come lui ha astratto la sua vita nei suoi quadri. Turner come ultima volontà decide di donare tutte le sue opere all’Impero della regina Vittoria. Sa benissimo che la Storia gli darà ragione. Come per tutti i veri pionieri non c’è spazio per lui nel dialogo tra la moda e la morte.