Tutta la verità sul caso Banksy

È altamente improbabile che chiunque decida di spendere più di 200.000 sterline per un quadro (questa la base d’asta del dipinto di Banksy poi aggiudicato ad oltre un milione) non chieda preventivamente un condition report, cioè un’attestazione delle condizioni dell’oggetto. Ed è altrettanto inverosimile che la casa d’aste risponda con la formula not examined out of frame, traducibile a braccio con: “caro signore, non l’abbiamo scorniciato, quindi, se vuole spendere tutto ‘sto grano alla cieca, lo faccia pure, ma se è una patacca sono cazzi suoi”. (Anche quando, come in questo caso, abbia avuto l’accortezza di specificare nella didascalia del catalogo “in artist’s frame”, cioè “in cornice fatta dall’artista”, lasciando planare il dubbio che essa non sia un contenitore, ma una parte integrante dell’opera).

In un mondo in cui due più due facesse ancora quattro, sarebbe lecito chiedersi se il famoso congegno segreto, inserito dal pittore sotto la cornice per distruggere la tela una volta venduta, non fosse tanto segreto quanto la statua di Nelson a Trafalgar Square, almeno per i principali attori della vicenda. Però, sono molti anni che nel grande circo dell’arte contemporanea due più due fa cinque, sei, otto e mezzo, o un risultato qualunque a seconda di chi esegua l’addizione. 

E dispiace dover parlare ancora una volta dell’ennesima magia da piazzisti d’elisir di lunga vita, messa in essere per rinvigorire ulteriormente un mercato già vigorosissimo, ma l’epilogo della storia è perfino irritante nella sua sconcertante prevedibilità. L’acquirente (un’anonima collezionista europea “da tempo cliente di tutto rispetto” – così comunica la casa d’aste) si dichiara oltremodo felice di aver speso un milione di sterline per un quadretto già modesto alla nascita e per di più ridotto a striscioline. L’artista (non anonimo, ma ignoto), per sua espressa ammissione acerrimo nemico della mercificazione dell’ingegno creativo, fornisce un certificato autografo dell’autenticità dell’opera nel suo nuovo stato, le cambia il titolo in “Love is in the bin” (L’amore è nel bidone) e accessoriamente intasca qualche spicciolo come diritto di seguito sulla vendita. La casa d’aste, che dice essere stata all’oscuro di tutto tranne delle circa duecentomila sterline incassate per la commissione, è orgogliosa di annunciare l’esposizione pubblica nei propri locali delle striscioline incorniciate, affinché tutti possano ammirarle e capire perché da oggi costeranno  il doppio.

Cosa dovrebbero dedurre gli svariati milioni di idioti – di cui io faccio parte – ai quali è rivolta questa sapiente manovra? Innanzitutto che la pubblicità è l’anima del commercio. E questo gli idioti lo sospettavano da tempo. In secondo luogo, che la cronaca è l’anima della pubblicità. Ma, qui è già richiesta una maggiore capacità d’analisi, di cui non tutti daranno prova. In seguito, che se la realtà è creata ad arte per arrivare sulle pagine di cronaca e trasformarsi in pubblicità, allora la pubblicità è un’arte e di converso l’arte è una forma di pubblicità destinata essenzialmente ad animare il commercio. Però, questo è meglio se gli idioti non lo deducono così continuano a comprare gli artefatti pubblicitari come se fossero opere d’arte. E da ultimo, che l’amore (dell’arte) è finito nel bidone o, se si preferisce, che l’arte è un bidone riempito d’amore. Cioè un bidone vuoto comprato in asta con tutto il cuore. Un bidone bello e buono ed anche costoso.

Provo a sviluppare il ragionamento e ne traggo alcune conclusioni. La prima è che, di questi tempi, un mediocre schizzo di un grafico pubblicitario può valere un sacco di soldi a condizione di essere molto noto. La seconda è che, se vale un sacco di soldi, se ne parla molto, diventa ancora più noto e quindi ne vale di più ancora. La terza è che per renderlo arcinoto e di conseguenza oltraggiosamente costoso, la maniera migliore è quella di farlo a pezzi in modo che non sia solo bruttino, ma anche rotto. Perché così, se pur essendo brutto e rotto vale una  fortuna, vuole proprio dire che è opera geniale e ragionevolmente deve costare almeno il doppio.

Qui il mio pensiero va automaticamente ad un aneddoto che si racconta sulla vita di Pierre Bonnard. Un giorno il direttore del Louvre vide irrompere nel suo ufficio un guardiano trafelato ed al massimo dell’agitazione. Con frasi sconnesse l’uomo tentava di avvisarlo del fatto che un visitatore stesse ridipingendo la parte bassa di una tela esposta nelle gallerie del museo. Il direttore si precipitò nel corridoio e di corsa raggiunse le sale dedicate alla mostra dei Nabis. È lì che, con grande stupore ed il cuore in gola, vide un anziano signore elegantemente vestito, seduto su una seggiola pieghevole, intento ad aggiungere alcune pennellate di colore ad un quadro, poi fermarsi ad osservare il risultato e ricominciare con tocchi rapidi e delicati. Il direttore si avvicinò e riconobbe Bonnard. “Maestro – esclamò senza riuscire a controllarsi – ma cosa sta facendo ?”. E Bonnard gli rispose: “È da quando questo quadro è uscito dal mio studio che avevo voglia di aggiustarlo. Adesso mi sembra più bello”.

E spero che il lettore non me ne voglia se questo breve racconto non mi suggerisce altro che una misera considerazione di ordine strettamente personale, ma che gran rimpianto quello di essere coetaneo di Banksy e non di Bonnard.

 

  

 

16-10-2018 | 00:04