Tutti i furbi del mondo. A Venezia
La Biennale di Venezia è un’ occasione privilegiata per “esplorare lo stato delle cose e andare oltre le loro apparenze, guardando il mondo attraverso il filtro dell’ arte contemporanea”. Quanto propone il curatore Okwui Enwezor che, con la mostra All the world’s futures, riunisce 136 artisti attorno ad un progetto espositivo, destinato secondo le sue stesse parole ad “afferrare l’inquietudine del nostro tempo, segnato da un violento tumulto, terrorizzato dalla crisi economica e da una catastrofe umanitaria, dall’incertezza e dalla profonda instabilità”.
Una corposa rassegna di opere, che denunciano disastri ambientali, discriminazioni razziali e sessuali, sfruttamento economico, ingiustizie sociali, violenze pubbliche e private, si dipana dai Giardini alle Corderie, partendo da un palcoscenico sul quale viene data lettura del testo integrale di Das Kapital. Gran parte di esse, oltre all’accusa contro l’Occidente bianco, maschilista, avido, colonialista e guerrafondaio, esprimono anche un atteggiamento severamente critico nei confronti dello stesso mondo dell’arte e del suo mercato, retti dalla sola legge del profitto.
Questo è lo stato delle cose del mondo e dell’arte alla 56a Biennale di Venezia.
Poi, si può fare il viaggio dietro le apparenze. E si consiglia di farlo seguendo attentamente le etichette appiccicate sulle pareti per descrivere i lavori esposti. Con una particolare attenzione alla prima e all’ultima linea, che indicano rispettivamente il nome dell’artista e l’identità del produttore, mecenate o gallerista che hanno reso possibile la presentazione.
Ad esempio, sulla facciata del Padiglione centrale appaiono due opere, una di Glenn Ligon, grazie alla galleria Luhring-Augustine di New York, e l’altra di Oscar Murillo, grazie alla Galleria David Zwirner, con sedi a New York e Londra. Una breve ricerca permette di sapere che nel suo lavoro Ligon affronta principalmente l’argomento della propria condizione di omosessuale afroamericano, emarginato dalla società statunitense, e che il record in un’asta pubblica per una sua opera è di 3,9 milioni di dollari. Quanto alla galleria, due spazi espositivi a Chelsea e Brooklyn, il sig. Augustine è il presidente dell’onnipotente Art Dealers Association of America ed ha creato un fondo pensionistico legato agli utili generati dalla sua azienda di mercante d’arte, commercializzato dalla società Graypools.
Il giovane Oscar Murillo, invece, fa della migrazione fisica e metaforica (nato in Colombia nel 1986, risiede a Londra dal 1997) il tema centrale dei propri dipinti e, nel solo 2013, a 27 anni di età, ha venduto in asta 24 pezzi per un totale di 4,8 milioni di dollari, con un record di 400 mila dollari per un’ unica tela. La galleria Zwirner, due sedi a New York ed una a Londra, oltre 60 dipendenti, aveva nel 2013 un fatturato di 245 milioni di dollari, in aumento nei due esercizi successivi, secondo Forbes.
Seguendo il percorso della mostra, questi esempi si moltiplicano, quasi senza soluzione di continuità, ed ovviamente non li citerò tutti. Decine di opere in provenienza dalle ricchissime gallerie Gagosian, Gladstone, Cooper, Miro, Mnuchin, White Cube, Goodman, Shainman. Decine di artisti che, con il loro grido di rivolta contro la società plutocratica, giudeo-cristiana e bianca, alimentano da anni un vorticoso giro d’affari di svariati miliardi di dollari, tale da accendere l’interesse di banche e fondi di investimento, vale a dire il cuore malvagio di quell’ Occidente contro il quale essi stessi insorgono. Mentre sul palco dell’arena tre attori leggono Il Capitale, alternandosi con lo spettacolo di canzoni della tradizione operaia, verrebbe fatto di chiedersi se il signor Enwezor sia ingenuo o difetti di onestà intellettuale.
E l’altissimo profilo professionale della persona ci spinge a propendere per la seconda ipotesi.
In effetti, Okwi Enwezor, nigeriano di nascita e statunitense d’adozione, non è un ingenuo, ma piuttosto la maggiore autorità mondiale nel campo dell’arte contemporanea. È arrivato a Venezia dopo avere diretto la Biennale di Johannesburg, Documenta a Kassel, la Haus der Kunst a Monaco di Baviera, curato decine di mostre nelle più importanti istituzioni internazionali, insegnato alla Columbia University e pubblicato numerosi libri. Un esempio luminoso della capacità economica e culturale dell’Occidente liberale di integrare e promuovere talenti e competenze, quale ne sia la provenienza geografica, la fede religiosa o le convinzioni politiche. Che il signor Enwezor, nel concepire la mostra, abbia nascosto a se stesso la propria storia personale, e quella di tanti artisti, presenti fa sorgere qualche perplessità.
Innanzitutto si potrebbe pensare che abbia individuato nella contumelia contro il sistema che lo nutre il grimaldello migliore per aprire le porte di un vitalissimo settore di mercato. E, forse, che il panafricanismo delle sue scelte sia la via più breve per lambire i sensi di colpa postcoloniali ed il gusto per l’esotismo della nostra belle-époque, di cui proprio quel mercato è il salotto buono.
In questo contesto appare più chiaro anche il senso dei premi attribuiti: Leone d’oro ad Adrian Piper, artista concettuale afroamericana, laureata ad Harvard ed insignita in patria di ogni riconoscimento accademico, malgrado la sua opera di denuncia contro le discriminazione razziali di cui è stata vittima, Leone d’oro alla carriera ad El Anatsui, scultore ghanese attivo nella travagliatissima Nigeria, ma celebrato nell’emisfero nord da varie mostre antologiche, dalla Hayward di Londra al Metropolitan di New York. E, soprattutto, figura di spicco ( record in asta 989 mila dollari) delle potenti gallerie Mnuchin (Robert Mnuchin è stato per 30 anni membro del direttorio di Goldman Sachs) e Jack Shainman di New York.
A questo punto sembra lecito chiedersi se l’opera curatoriale di Enwezor, più che la genuina riflessione di un intellettuale ribelle, non sia il risultato raffinato ed efficace del marketing ideologico nordamericano. Politicamente corretto, moralmente lusinghiero e, quindi, improntato ai dettami di un terzomondismo ostentato, dal quale chi abita nel terzo mondo, ovviamente, non riceve mai dividendi.
L’America di Kennedy e di Johnson si esportava grazie ai film di John Wayne, nei quali i pellerossa erano selvaggi crudeli e i cowboys eroi dal cuore d’oro, con gli stivali rotti ma il cervello fino. Quella di Obama si vende con i quadri di Glenn Ligon e le mostre di Enwezor, che semplicemente rovesciano il paradigma. Che Il Capitale sia stato scritto da un ebreo tedesco, o che la schiavitù sia stata abolita grazie all’opera determinante dell’abate Condorcet, sono solo dettagli trascurabili nella strategia di questa rigenerata, grande industria culturale.