Un giorno gli alberi si misero in cammino/3
Nelle Metamorfosi narrate da Ovidio, come dai suoi predecessori greci, esiste un rapporto molto preciso tra l’albero, da una parte, e la ninfa e suo padre dall’altra, come se tutti appartenessero a una famiglia. Come dire: la ninfa è già, potenzialmente, l’albero che diverrà. Le metamorfosi non sono, quindi, prive di un significato, anzi corrispondono a una precisa lettura, a un’interpretazione della natura molto minuziosa. La più celebre di queste metamorfosi vegetali è quella che fece di Dafne il lauro di Apollo, l’arbusto sacro che aveva ruolo molto rilevante in tutte le manifestazioni religiose e civiche. Dafne era figlia di Peneo, un fiume della Tessaglia figlio di Oceano e di Teti, e rifiutava ostinatamente tutti i pretendenti che la chiedevano in sposa. Preferiva vivere libera percorrendo la solitudine dei boschi, gli “eremi delle foreste”. Apollo si era preso gioco di Eros, vantandosi di sfuggire al suo potere, e proprio per questo il fanciullo dio lo fece innamorare della ninfa rendendola, al contempo, ancora più insensibile. Dafne, non sapendo più come cavarsela, invoca il padre Peneo e il potere divino dei fiumi: “Mutami e toglimi questa figura, onde fui troppo cara”. La trasformazione avvenne immediatamente.
Aveva appena finito di pregare, che un pesante torpore invade il suo corpo; il petto delicato viene avvolto da una sottile corteccia, i capelli si mutano in foglie, le braccia in rami, i piedi poco prima così veloci si fissano in radici inerti, il volto in una cima d’albero: le rimane solo al bellezza. Pur così Febo continua ad amarla e poggiando la testa sul tronco sente che ancora il petto batte sotto la fresca corteccia e, intrecciando le sue braccia ai rami come se fossero le membra di lei, bacia il legno: ma il legno si sottrae a quei baci. A cui il dio: “Poiché non puoi essere la mia coniuge – disse – sarai di certo il mio albero. La mia chioma, la mia cetra, la mia faretra, o alloro, si orneranno di te".
Sempre nelle Metamorfosi di Ovidio, un’altra separazione, questa volta dall’amato, e non di una ninfa, vede un ragazzo di nome Ciparisso essere trasformato in un albero, il cipresso. Viveva in compagnia di un cervo sacro alle ninfe e addomesticato. Un bel giorno, non accorgendosi che il cervo si adagio sotto l’ombra di un albero, senza volerlo lo trafisse con un dardo. Appena lo vide morire decise di morire anch’egli. Febo Apollo, che amava il ragazzo, volle consolarlo, ma Ciparisso, invocando gli dei, chiese “di piangere senza limite di tempo. E subito le membra, esauritosi il sangue per l’incontenibile pianto, cominciarono a tingersi di verde e i capelli, che poco prima gli cadevano sulla fronte candida come la neve, divennero una chioma ispida, che drizzandosi puntava con la cime sottile verso il cielo stellato. Se ne dolse il dio e con tristezza gli dice: <Sarai pianto da me e piangerai gli altri e sarai accanto a chi soffre>”. Da allora quest’albero sempreverde viene piantato presso le tombe; è diventato simbolo del lutto, del dolore inconsolabile.
E comunque è tutto il bosco, da sempre foriero di valori sacri, a essere sovente richiamato in occasioni di preghiera e di raccoglimento. Come accade in un sonetto che richiama l’oblio del bosco, come fosse un sacro altare davanti al quale ricordare. Venne composto da Stéphane Mallarmé nel 1877 in occasione di un lutto.
Sui boschi obliati quando passa il buio inverno,
Solitario prigioniero della soglia, ti lamenti
Che questa doppia tomba futuro nostro orgoglio
Solo di ricchi fasci assenti ahimè! Si grava.
Inascoltata Mezzanotte, che il vano numero gettò,
Ti esalti nella veglia per non chiudere gli occhi
Fin che nelle braccia della vecchia poltrona
L’ultima fiamma non rischiari la mia Ombra.
Chi vuol sovente avere la Vista non deve
Di troppi fiori opprimere la pietra che il mio dito
Solleva nello stremo di una forza defunta.
Anima che trema d’assiderarsi al chiaro focolare,
Per rivivere mi basta alle tue labbra cogliere
Il soffio del mio nome a lungo sussurrato una sera.
(fine)