Un velo non fa primavera (islamica)
Ormai è una psicosi: gli italiani residenti o di passaggio a Istanbul – per turismo, per studio, per affari – si lamentano perché “le donne velate sono di più”. Ma di più, rispetto a quando? E soprattutto, costoro passano forse il loro tempo in città a contarle? Le contano tutte? Che poi: anche se fosse, quale sarebbe il problema? Un foulard sulla testa, non rende di certo pericolosi o infidi: è di un pezzo di stoffa che stiamo parlando! Per riflusso d'orientalismo, ingigantito dall'11 settembre e dagli epigoni dello “scontro di civiltà”, però è vero che le donne col capo coperto “creano sospetti e paure, sono considerate una minaccia alla sicurezza, ai valori secolari e ai diritti conquistati dalle donne” (Renata Pepicelli, Il velo nell'islam, Carocci 2012). Paura del diverso, paura del minaccioso islam.
Certo, ogni tanto ci s'imbatte – nei quartieri turistici attorno ad Hagia Sophia e alla Moschea blu – in donne vestite di nero dalla testa ai piedi, avvolte nell'abaya e col niqab sul viso che lascia scoperti solo gli occhi: ma nella stragrande maggioranza dei casi si tratta infatti di turiste provenienti dai paesi del Golfo persico (con abaya spesso decorati, sotto i quali s'intravedono vestiti “all'occidentale” anche sfiziosi); mentre in altri quartieri – poveri e degradati, abitati soprattutto da immigrati dall'Anatolia profonda – è effettivamente in uso il nero integrale: ma il viso rimane però libero.
Sì, possono essere effettivamente di più – nella proporzione tra capo coperto e capo scoperto – le donne e le fanciulle che indossano il türban: un foulard coloratissimo che copre nuca e capelli, per l'appunto; e sì: è stato il partito d'ispirazione islamica al governo dal 2002 – l'Akp del neo-presidente Recep Tayyip Erdoğan – che ha abolito i divieti introdotti dal passato regime militare e autoritario, incoraggiandone di fatto l'uso. Questa libertà è stata conquistata anche per le parlamentari o per le pubbliche funzionarie: una prova di maturità per la “Nuova Turchia”, che sta faticosamente ampliando gli spazi di libertà e democrazia; e il paese – laicisti irriducibili a parte, quelli che invece spesso imbeccano i giornalisti occidentali con suggestioni islamofobe – ha metabolizzato la novità senza troppi scossoni.
La vera novità è però un'altra: l'abbigliamento “conservatore” – per le donne che vogliono rispettare i dettami dell'islam, veri e presunti – che sta diventando sempre più raffinato, modaiolo, colorato, femminile; rispetta l'islam, rispetta le esigenze della nuova media e alta borghesia che negli ultimi dieci anni ha conquistato il potere prima economico e poi politico. I vestiti diventano sempre più aderenti, le forme del corpo messe in evidenza; i jeans e i giubbotti di pelle sono frequenti, qualche gonna si alza arditamente di qualche centimetro dalla caviglia. A completare la mise, trucco impeccabile e tacchi assassini; spuntano perfino türban leopardati.
E proprio in questi giorni, la griffe Armine – la più conosciuta, tra le giovani generazioni alla moda – ha lanciato una campagna pubblicitaria in cui fanciulle diafane, dagli occhi grigi e rigorosamente “velate” presentano l'ultimissima collezione – autunno/inverno 2015 – alla guida di una cabrio rossa fiammeggiante: tutto molto vintage, tutto molto fashion. Nel 2011, è nata persino una rivista di “moda islamica”: si chiama Ala (in arabo, “eccellente”) ed è stata ribattezzata “Vogue turca”, la copertina del numero di settembre ha suscitato qualche malumore e qualche polemica perché suggerisce una donna – islamica e coi capelli coperti – compiutamente seduttrice. La realtà che sconfigge gli atavici pregiudizi.