Una sola parola: Dada!

Uno esclama, spegnendo le candeline sulla torta: DADA! a significare il nulla onomatopeico, l’infantile sberleffo, l’incipit di una ritmica irrazionale, fuori spartito e fuori vocabolario. Cento anni, trascorsi da quell’apertura di battenti al Cabaret Voltaire di Zurigo, porteranno nel 2016 a magniloquenti celebrazioni, come è tipico della nostra epoca così incline alla retrospettiva onnivora e perpetua. Ma qui, occorre specificare, l’affastellamento commemorativo andrà solo a blandire l’unica corrente artistica morta per propria mano, anzi dissolta per statuto, nell’atto di convincere tutto il baraccone mondano a festeggiare la fine della recita con folle autodafé pirotecnico. Saltano spesso fuori questi termini: “Tabula rasa”, “punto zero”, “gesto di rottura”, “arte della negazione”, “deriva nichilista”, a significare l’elemento iconoclasta del Dadaismo, tutto un fardello di oltraggi che ancora oggi ci portiamo appresso per automatismo imitativo o per ostentare modernità fuori dagli schemi. Ora è tutto un remake patinato, mentre quelli dovettero schiavare sputi ed ortaggi. Il Dada infatti invecchiò precocemente, tanto da risultare obsoleto ai suoi stessi fondatori dopo un paio d’anni; questo certamente per l’evidente natura sfuggevole del movimento, ma anche per la propensione a ribaltare consapevolmente tutto nel suo contrario. Noi contemporanei, invece, non ne siamo più usciti.

Caso emblematico, a voler trovare un soggetto rappresentativo oltre all’Agit-prop Tristan Tzara, è quello di Hugo Ball, il dandy per eccellenza – con ciò intendendo il connubio sprezzante di eleganza e stravaganza – il poeta anti-poetico che scrisse il manifesto del Dadaismo nel 1916 e al quale è attribuita la paternità dell’insensata etichetta. La figura di Ball ci aiuta a comprendere la grande contraddizione insita in Dada, quella tendenza irrazionale che, se da un lato contribuì a spaventare i conservatori con la degradazione della forma, dall’altro non fece altro che illudere i progressisti attraverso depistaggi e continue disdette. “Ci vediamo là!”. Ma là non giunse mai nessuno, visto che Dada non credeva fosse il caso; decisamente “mi si nota più se non vado”, parafrasando il Moretti di Ecce Bombo. Il Dada, null’altro che una premessa che nega qualsiasi conseguenza, enfatizzandone l’attesa. Ecco quindi tutta l’impasse dinnanzi all’assenza di messaggio, allo sfottò destinato più che ai vessiliferi della tradizione, proprio ai paladini dell’avvenire radioso, d’ascendenza illuminista. Senza scomodare, dal wahlalla aristocratico, il barone Julius Evola – massimo esponente del Dada in Italia, poi tradizionalista ed esoterista da maneggiare con cautela – è possibile tratteggiare questo cortocircuito artistico proprio grazie alla piroetta enigmatica di Hugo Ball, passato anch’egli dalla primogenitura avanguardista alla tradizione più mistica ed atemporale.

Certo i primi del ‘900 furono anni confusi; anni dove si mescolarono tensioni ed assolutismi contradditori. Pensiamo ad esempio all’influenza esercitata dal teosofismo di Helena Blavatsky, iniettato come siero visionario in tendenze razionaliste o meccanico-futuriste, con ciò facendosi strascico della tenzone latente fra Romanticismo ed Illuminismo. Oppure all’interpretazione esoterica del Grand verre (La Mariée mise à nu par ses célibataires, même)di Marcel Duchamp che Arturo Schwarz titolò genialmente L’alchimista messo a nudo, anche (Marcel Duchamp, Critica biografia mito, Electa, 2009), laddove si andavano a sviscerare, con l’ausilio della simbologia iniziatica, tutti i segni della Grande opera occultati dietro lo stereotipo esteriore, quello dell’installazione artistica “moderna”. Se il Dadaismo può quindi essere letto come un fenomeno artistico reazionario, non poggiante sulla fiduciosa speranza di un futuro migliore e solo strumentalmente accostabile a tendenze estetiche evolutive, ciò trova splendida conferma nell’ascetico abbandono del palcoscenico da parte di Hugo Ball, nella sua retromarcia da eremita verso il cattolicesimo ortodosso. Non farà comodo pensarlo, visto che l’abitudine all’incasellamento ce lo presenta sempre sovvertitore, inscatolato nel buffo costume da patafisico, ma la vera indole di Ball fu antimoderna. A riprova di ciò basterebbe recuperare Cristianesimo bizantino (Biblioteca Adelphi, 2015), volume che vede lo scrittore tedesco raccontare la vita di tre santi - Giovanni Climaco, Dionigi l'Areopagita, Simeone Stilita – traghettando così il nonsense Dada verso cristalline profondità gnostiche. Con giochetto acronimo, potremmo chiudere così: Da Allora Domani Assenti.

 

 

13-02-2016 | 21:46