Valls, il pittore dell'inconscio
“A molti è dato dipingere la bellezza, la celebrazione della vita, a me invece è toccato rappresentare la vertigine esistenziale”. Con queste parole e con quelle immagini, si presenta al grande pubblico Dino Valls, geniale pittore figurativo contemporaneo che dopo una laurea in medicina, ha imparato, da solo, a dipingere. Ma Valls non dipinge solamente, quella infatti non è pittura tout court: “Io sono come uno psicanalista del cavalletto e le figure che dipingo sono incarnazioni dell’inconscio”.
Un raffinato esercizio il suo che coniuga la psiconalisi junghiana a quello che resta del Surrealismo diventandone di fatto un protagonista assoluto: pur operando in esso (per via dell’esplorazione dell’inconscio), di fatto lo trascende grazie a tecniche che includono l’ausilio del conscio - alchimia improponibile per i primi surrealisti che tentavano di decifrare la psiche solo in virtù di un rifiuto netto della sfera razionale, pensiamo a Breton che considerava la veglia uno stato di interferenza.
Valls non usa persone come modelli, quel volto adolescenziale e androgino, riproposto nelle sue più disparate sfaccettature, ma in fondo sempre lui (o lei), è appunto il suo inconscio, fotografato tramite una tecnica junghiana chiamata “immaginazione attiva”. Per mezzo di essa, che per semplificare potremmo definire una sorta di meditazione, il pittore riesce a scendere nella sua sfera inconscia pur rimanendo cosciente, ciò gli permette di registrare un’immagine quanto più veritiera e dettagliata possibile la quale successivamente verrà riprodotta nella tavola.
Potremmo paragonare la tecnica ad un sogno lucido: stiamo sognando ma siamo consapevoli di essere nel sogno, in questo modo possiamo dirigerlo e di fatto sognare ciò che vogliamo, ricreando il nostro mondo. Anche sognare lucidamente è una ben nota metodica di esplorazione del subcosciente ma se in essa tuttavia è la parte inconscia ad essere maggiormente impegnata – siamo consapevoli ma non siamo svegli, se lo fossimo perderemmo il sogno, la parte conscia dunque lavora al venti per cento diciamo - nell’immaginazione attiva al contrario conscio e inconscio lavorano quasi alla pari e ciò garantisce ampi margini di controllo sul piano della visualizzazione e della percezione, il che assicura a sua volta notevole attendibilità in termini di rielaborazione del vissuto.
I risultati della tecnica si rivelano sorprendenti e sono rappresentati, nel dettaglio, dai vari dipinti della voluminosa produzione vallsiana, un museo degli orrori a tratti ma terribilmente affascinante come affascinante è il viaggio interiore in sé, sempre prodigo di incessanti arricchimenti conoscitivi in quanto è proprio quello l’anelito primigenio: visita interiora terrae, rectificando invenies occultum lapidem (citazione presente tra l’altro in Psicostasia).
Le citazioni sono snocciolate in quasi ogni opera, un vero e proprio giubilo per lo spettatore colto il quale riconosce risolutamente un altro grande merito a questo straordinario pittore: oltre alla tecnica, magnifica, oltre all’idea, di assoluto valore, svetta imperioso, un percorso di studi, di ricerca, un percorso serio che lo proietta di fatto tra quegli artisti che non hanno bisogno per forza di giocare a fare gli anticonformisti per essere artisti, che non hanno bisogno di ricorrere al provocatorio, ormai perfino banale nell’arte, all’inconsueto scontato e infine al ridicolo. Valls, al contrario, forte di un approccio filosofico profondamente sincretista ci schianta in faccia il mistero dell’Io, spacca e spalanca una porta su mondi sospesi, abissi precipitturati che di fatto ci appartengono, ineluttabilmente. Quando guardiamo i suoi dipinti qualcosa risuona dentro, quasi quei volti aguzzi di follia ci siano familiari in qualche modo, forse perché essi in fondo sono, come egli dice, “specchi dell’inconscio collettivo”, ed ecco che dobbiamo ancora tornare a Jung per comprendere appieno cosa stia accadendo di fronte a un volto vallsiano.
Ammirare dal vivo i suoi dipinti è davvero un’esperienza sensazionale, non siamo solo noi a guardare quelle figure ma esse stesse guardano noi, danzando sopra l’abisso degli (apparenti) opposti che ci definiscono esistenzialmente: vecchio-giovane, sano-malato, maschio-femmina, sacro-profano e così via. Il pittore sembra dirci che siamo ingabbiati in quegli opposti ma al tempo stesso li trascendiamo, proprio in quanto opposti: la nostra libertà risiede proprio nell’esprimerci nell’arco dei loro antipodi, sono limiti che si oltrepassano e si rimpiazzano costantemente, confondendosi e confondendoci: quale la vera realtà? La sanità o la follia? La follia è per sempre o la guarigione è possibile? Se sì, quale guarigione? Siamo sicuri che la guarigione non sia a sua volta follia? Chi stabilisce quale sia la follia e quale la sanità? Quella follia è del resto meravigliosa, siamo sicuri che debba essere curata?...
Ammirando il “museo vallsiano”, molte sicurezze di fatto cedono ed ecco che la sua missione trascende l’arte in sé diventando filosofica e pedagogica: Valls insegna. Tramite la bellezza, pone e impone quesiti che, pesanti come macigni, fracassano e rimbombano dentro, e lì rimangono.