La culla del narcisismo
«Oh, quel genio io non l’ho, la scintilla mi manca» scrisse d’Annunzio a un amico, ma non esitò anche a definirsi miglior arredatore che poeta.
Il non sentirsi un autentico genio é il punto cavo del narcisismo dannunziano. Sicuramente la nota taoista di questa osservazione sarebbe piaciuta al Vate, non alle prime armi quanto a sincretismo religioso. Una sfera con un vuoto centrale che la mantiene sferica. Questo spazio vacante ha avuto un doppio registro di utilizzo: da una parte lo possiamo immaginare come una bolla, per cui tanto più grande é il vuoto interno tanto più estesa é la superficie esterna, dall’altra é stato il vorace compagno della produzione dannunziana.
Questa estesa superficie é stata arredata intensamente, il vuoto é stato schermato con un patchwork di antiquariato prezioso e scorribande per rigattieri. Il Vittoriale, infatti, é la superficie implosa e accartocciata di questa bolla. Finché dovette completarne la locuplentazione, la bolla resse e il Vittoriale fu effettivamente il suo guscio. Poi, un giorno, come sanno i mistici, l’esterno e l’interno divennero una cosa sola e d’Annunzio, espulso da quel vuoto ormai assente, andò altrove. Del resto, cosa rimane a fare un arredatore (o, meglio, un “compositore”) dopo che la composizione è completa?
A questo doveva servire lo Schifamondo, ossia la nuova ala accanto alla Prioria. Se nelle stanze celebri del Vittoriale un uomo della corporatura di d’Annunzio può sentirsi imponente, data l’infilata di spazi angusti e zigzaganti fra ninnoli fragili, nello Schifamondo succede l’esatto opposto. Stanze ampissime, volte altissime, punti di fuga aeroportuali. Finalmente un vuoto più grande per contenerlo. Che si trattasse di un contenitore dell’ego o di uno stratagemma per tornare a sentirsi piccolo dopo che gli spazi stretti l’avevano fatto sentire gigante è da discutersi, ma l’impressione è che il faraonico Schifamondo fosse la piramide di un dio vecchio che voleva ritornare bambino, la culla di un narcisista che più di tutto avrebbe voluto invertire lo scadenzato decadimento con cui mai si sarebbe potuto appacificare.
C’è poi la voracità del vuoto. Come non farsene risucchiare? Se l’angoscia della tua vita é di non cadere nel grigiore indifferenziato degli “altri”, in che modo puoi essere “tu”? Non ci sono molti modi se non surclassare la massa e lo si può fare solo in due modi: perché si è nati diversi o perché lo si è diventati. Dal punto di vista fisico c’è la bellezza che innalza e dal punto di vista mentale il genio. Ma se si è sprovvisti di entrambi? Se, senza essere brutti o stupidi, si è tragicamente non sovrumani? Bisogna sopperire sia fisicamente che mentalmente, ma come lo fece d’Annunzio?
Il Vittoriale risponde molto bene alla domanda. Se si contano i luoghi in base alla destinazione d’uso, si noterà che in maggioranza schiacciante sono posti dove copulare e dove lavorare. Se non si è disumanamente belli bisogna almeno avere moltissime amanti, almeno quelle che avrebbe Eros stesso. Se non si è divinamente geniali bisogna inevitabilmente lavorare molto. E d’Annunzio prende queste attività con infinita serietà. Tanto l’eros quanto il lavoro, infaticabilmente. Ma il lavoro all’Officina, da solo, rischia di trasformare in uno di quei letterati in pantofole e papalina tanto odiati: solo l’eroismo può veramente innalzare il singolo al di sopra dei suoi simili. È l’eroismo che, in lui, compensa l’assenza del genio come l’eros l’assenza di bellezza. La poesia li tiene insieme nell’arte. Senza poesia, eros ed eroismo non trasformano la propria vita in un’opera d’arte. L’esteta, il condottiero e l’amatore sono poi molto distanti dal damerino, dal mercenario e dall’erotomane? No, non lo sono. Se non si è poeti, “creatori”, non si è dèi in terra, cioè artisti. La poesia allaccia a sé eros ed eroismo e trasforma la vita del cicisbeo e del bruto in opera d’arte.
Ma come può il Vittoriale spiegare tutto questo così bene? Perché è d’Annunzio in forma di città. La sua psiche collassa plasticamente nella casa: se avesse potuto plasmarla con la facilità e la velocità della terracotta, probabilmente avremmo avuto una casa strutturalmente diversa. Un Vittoriale delirato, ancor più patologicamente bello. La sua topografia, precisa come quella di una città, con le sue vie, le sue piazze, i suoi luoghi di ritrovo (Zambracca, Piazzetta dalmata, Laghetto delle danze, Stanza del Lebbroso, Corridoio della Via Crucis, Stanza della Cheli, Portico del parente, Veranda dell’Apollino, etc.), era d’Annunzio spazializzato sempre sull’orlo della conflagrazione. In questo c’è una sospetta incapacità di dimenticare Fiume, dove – primo e ultimo – fu poeta e reggente di un piccolo dominio fra loro in sintonica identità.
D’Annunzio non fu profeta e nemmeno visionario o nostalgico, semplicemente non si fece ostacolare dalla mentalità del suo tempo nel cogliere le occasioni che offriva il neonascente Novecento: non era un uomo dell’Ottocento che presentiva il futuro o un contemporaneo in dialogo con gli antichi che parlava ai posteri, ma un uomo che afferrava il presente innaffiandolo di passato e calciandolo nel futuro. Viveva senza farsi condizionare dal Tempo, che è il privilegio di chi è solo.