La Sicilia è nostalgia assoluta
La storia della Sicilia è la storia di una mancanza, e tutto il suo racconto quindi è il racconto di una nostalgia. Questo percorso, che muove dunque dalla perdita reale – di un luogo, un tempo, un amore – attraverso la letteratura giunge a farsi canto del desiderio stesso dell'assenza, scrittura della nostalgia assoluta.
Per giungere a questa purezza, gli scrittori siciliani hanno dovuto distruggere il senso della storia.
Così, mentre Manzoni e Nievo vedono nella storia il compimento di un cammino, De Roberto scrive che "la storia è monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi".
De Roberto, Pirandello, Verga, Brancati e Tomasi di Lampedusa. I grandi romanzi siciliani del primo novecento sembrano esaltare l'antimoderno, deridere la democrazia, mortificare il riscatto sociale, forse perché il cervello dei siciliani funziona così, "come un demonietto che smonta il congegno" e il congegno è in questo l’idea stessa del progresso.
Nel classico forse più citato e più frainteso della storia italiana, il Gattopardo sconfitto è destinato a far posto a iene e sciacalli, ma ancor più ferocemente, è Brancati a scrivere che "…un giorno [...] operai, contadini e piccoli borghesi ti susciteranno la ripugnanza che provo io al solo sentirli nominare [...] e nel domani, il riscatto sociale delle masse significherà che l'epoca dell'umanità è finita e inizia quella delle termiti".
La storia del racconto siciliano non conduce a una meta di felicità. Gli ultimi restano gli ultimi, e come in una preghiera mortificate, il dolore da dolore, la miseria da miseria, i soldi fanno soldi e la munnizza fa munnizza.
Si potrebbe forse liquidare la questione osservando come questi autori siano in verità accomunati dall'essere parte di una vecchia classe aristocratica o alto borghese, e che questo malinconico volgersi a ritroso, possa infondo consistere in nient'altro che la reazione alla crisi del loro sistema sociale.
Tutto cambia, affinché non cambi nulla. C'è una rivelazione sotterranea in questa sentenza, e scorre la traccia rumorosa del discorso storico-sociale. Il sentimento di una nostalgia assoluta è già nelle maglie del racconto, affiora quando il Principe di Salina contempla le stelle, e tutto il cosmo sembra pervaso da una cappa di lutto. Don Fabrizio è il leone, ma nella sua volontà di dominare la vita, c'è la stanchezza, l'inconfessabile pulsione di volgersi alla stelle. Don Fabrizio è l'uomo di un tempo che termina, e nel terminare è già un uomo in rivolta. Il suo narcisismo, è scisso: nell'ammirazione per chi, come il nipote Tancredi, ha il potere di ingannarsi e ingannare la vita e le sue miserie; e più profondamente, nell'amore per Giovanni, il figlio fuggito – mancante – che ha in sè la potenza di fronteggiare il senso, quel tanto di morte che è possibile mettere su... continuando a vivere.
La rivelazione dell'assurdo è il portato di questa consapevolezza. Come il sentimento dell’assurdo si rivelerà alla classe borghese nel Sisifo di Camus grazie alla liberazione dai bisogni primari, così l’insensatezza del divenire storico è disvelato allo spirito del popolo siciliano da secoli di dominazioni straniere.
Freud parla della nostalgia come del desiderio di tornare ad una luogo nascosto, rielaborato, contaminato dalla nostra fantasia, da ricordi che si perdono nell’inconscio. Un luogo che non è e non potrà essere, un desiderio inappagabile di morte. “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono.”
Il romanzo siciliano è destinato a essere travolto dalla sua stessa matrice.
Ci si addentra sempre di più nel secolo breve. La storia accelera, dominata da ideologie assolute, dalla frenesia del progresso e delle sorti umane. La forma-romanzo precipita, aggredita dalle possibilità oscure della poesia. Lo scrittore si libera della narratore, si inabissa nel mare delle lingue e dei linguaggi.
La letteratura siciliana diventa la ricerca ossessiva di una lingua, l'orgoglio di un barocco linguistico forsennato e ricercatissimo che vuole dire quel che non può essere detto.
Consolo e D’Arrigo scrivono il dolore, il delirio di un Odissea chiusa, l’infinito ciclo di un impossibile ritorno al tempo che mai ebbe cominciamento. E' la traccia delle parole l'unica Sicilia possibile, e la letteratura l'unica mano volta tesa ad afferrare i significati e ricongiungerli al mare notturno dei significanti.
La nostalgia è un orgoglio, perché il ritorno è impossibile, e nobile è solo la ricerca di un altrove che è prossimo alla fine. Il mare circonda l'isola, ma soffocante è il miraggio della libertà, come una condanna. Vincenzo Consolo dirà del viaggio – e di quel viaggio che è lo scrivere – che la "causa vera è lo scontento del tempo che viviamo". La parola siciliana vuole elevarsi, e per farlo si accresce, si sdillabra, si strazia nello slancio del dire di una mancanza che depurata, filtrata da secoli d’indurimento dell'animo, arriva a essere il sogno primordiale: Ritornare a Itaca, al Paradiso perduto, alla Terra promessa.
Così era per il Verga che si ricongiungeva a Catania come luogo di "un’ideale, suprema, incompiuta nostalgia", o ancora è Pirandello che, smettendo i panni dell'intellettuale fascista, confessa di sentirsi "solo un uomo sulla terra".
Vita e senso, testa e coda di una serpe che si divora e si rigenera, il ciclo insensato dei vinti ripetuto come un lamento. È la condizione umana, e il suo valore è solo nel fenomeno estetico, nel momento sospeso dell’arte. È il Sorriso dell'ignoto marinaio, il navigatore D'Arrigo che vuole sprofondare – dentro, più dove il mare è mare – e chiede all’angelo di cibarsi delle Rose dei venti.
È la pattumiera mediterranea delle mitologie e delle avventure storiche dove il mito e la storia risorgono in una lingua bestiale e incestuosa.
“Io sono morto e il mio cielo m’è dentro luminoso nel mio sonno.”
Il canone siciliano, è rivelato: la nostalgia è assoluta, l'orgoglio di una lotta irrisolvibile contro la vita e contro l'esistenza.