Un americano a Roma
Chissà cosa rimane negli occhi e nel cuore di chi, dopo un viaggio di migliaia di chilometri, arriva a Roma? Chissà cosa rimane impresso nella loro memoria? Magari intruppati in lunghe file come soldatini dietro a bandiere di foulard da non perdere di vista per evitare di salire sul torpedone sbagliato; o rinchiusi in interminabili colonne di auto blindate. Chissà.
Il Colosseo, certo, è la prima meta, scontata e immortalata in mille film, in innumerevoli cartoline, ma tutti corrono lì. Lui immobile da secoli, aspetta con indifferente pazienza anche gli ennesimi restauri, inutili forse se neanche il terremoto – che scuote ogni tanto anche l’urbe – lo ha scalfito. Qualche crepa si vede ancora inflitta dalla scossa del 1349 che decapitò invece la Torre delle Milizie. Guardano, si aggirano, nelle loro scarpe comode da trekking, e se hanno sete tentano di placarla con “salatissima” acqua minerale. Ma non sanno che a Roma l’acqua è gratis, per tutti, portata in città da 11 acquedotti vecchi di secoli, che muoiono nelle mille fontane e fontanelle d’acqua corrente che i romani chiamano nasoni.
Cosa capiranno della magia di Roma, quando arrivati a San Pietro guardano allibiti la chiesa più grande del mondo, come fosse un cartonato visto e rivisto? Dovrebbero invece staccarsi dal torpedone e cercare via dell’Archetto per entrare - uno alla volta - nella chiesa più piccola del mondo, dedicata ad una Madonna che, leggenda vuole, mosse gli occhi quando la città fu saccheggiata da Napoleone; oppure dovrebbero arrivare nella chiesa di San Benedetto in Piscinula e ammirare la più piccola e antica campana di Roma, scampata ad un altro sacco, quello del 1084 di Roberto il Guiscardo.
Ma non possono, o forse non vogliono, sforzarsi di capire la magia di una città che impassibile resiste indifferente e beffarda ai secoli, al potere che cambia e si scambia la veste, ora con la podestà religiosa, ora con quella temporale. Salgono ansimanti o scortati in piazza del Quirinale e forse gli viene spiegato che lì c’è il corridoio più lungo del mondo. Ma non afferrano che varcando il portone ogni capo di stato del mondo passa sotto il giogo di San Pietro e San Paolo, placidamente sdraiati ai lati dell’architrave, sotto la benedizione dell’immancabile Madonna. Segni di un tempo che fu, simboli del passaggio di consegne tra un potere e l’altro, che sempre perdura a Roma e fa dell’Urbe la città eterna. È questo rapporto – col potere appunto – che forgia la placida indifferenza dei romani all’ennesimo corteo di sirene spiegate: perché morto un papa se ne fa sempre un altro.
A Roma la morte sembra quasi non esistere, ma non se ne accorgono i torpedoni di yankee o i potenti dietro spessi vetri blindati. Non intuiscono che le viscere di Roma sono erose da tombe, catacombe, cunicoli piene di ossa, crani e clavicole che si fondono ormai con la città come nella Cripta dei Cappuccini in via Veneto; o come il Verano, cimitero, sì, ma pur sempre monumentale, dove Giulio Andreotti - che di Roma e del suo potere era quasi l’incarnazione - chiese la mano alla sua giovane fidanzata. Le mura stesse di Roma spesso sono composte di corpi o di parti di questi come la chiesa di san Vincenzo e Anastasio a fontana di Trevi dove riposano murate le viscere dei papi. Ma non afferrano, forse inebetiti dalle spiegazioni metalliche delle guide negli auricolari.
Nessuno li ferma in Piazza di Pietra a cercare una piccola croce, scolpita da chissà chi su una colonna, quando questa era un architrave di una casa medievale. Non cercano la delicata prospettiva di Palazzo Spada, e se scendono negli scavi di San Clemente non capiscono la prima parolaccia incisa nella storia: “traite fili de le pute” urla Sisinno in un affresco. E se ancora dai loro torpedoni incrociano in periferia qualche signorina che fa il mestiere, non sanno che anche la lussuria va a braccetto col potere, e quindi è di casa a Roma. Come a Monti, una volta l’antico lupanare, dove Cesare ha visto la luce e Messalina andava a lezione dalle mignotte.
A sera, stanchi, cercano ristoro dalla troppa bellezza che li ha stravolti e sprofondano in qualche scomodo tavolino o in fastosi salotti del potere. Ordinano pizza e cappuccino, spaghetti e coca cola, accecati e illusi dalla cucina genuina a caro prezzo. È solo illusione che anch’essa fa parte di Roma e da cui sempre tutti rimangono ammaliati. E fregati. Come gli ospiti di Agostino Chigi, che nei banchetti del ‘700 romano, gettavano a fine cena l’argenteria nel Tevere, ignari delle reti nascoste alla loro vista, provvidenzialmente sistemate dal padrone di casa. Questa, signori, è magia.