Do iu spic inglisc?
Immaginate la scena seguente: siamo sull’Everest, non proprio sulla cima, ma a un’altezza di 8.600 metri. Una squadra di soccorso si occupa di un alpinista australiano, un uomo sulla cinquantina, sperduto e ormai allo stremo; per gli stenti patiti e la mancanza d’ossigeno l’uomo delira: crede di essere su una barca in mezzo al mare. La squadra di soccorso ha esaurito le scorte di ossigeno. Senza ossigeno l’uomo potrebbe morire. Ma interviene la divina provvidenza. Arrancando per le pendici, appaiono due alpinisti all’orizzonte. Si avvicinano. I soccorritori chiedono aiuto. Con gesti delle mani, i due alpinisti gridano in risposta: «Ui dont spicinglis! UiItalians! Ui dont spicinglis!». E tirano avanti.
Cos’è? Una scena avanzata da una sceneggiatura per Alberto Sordi? No, è realmente accaduto un 25 maggio di qualche anno fa: lo traggo da un articolo sul Guardian del 9 giugno. Pare poi che, tornati alla base, i soccorritori siano stati informati che in realtà i due, sia pur come vacche spagnole, in inglese riuscissero a spiegarsi. La domanda è se si sia trattato di fellonia morale, quella, così tipica, che induce a non soccorrere un ferit per strada, per paura di sporcare i sedili della macchina nuova, o di reale fellonia linguistica – altro tratto nazionale tipico. L’inettitudine linguistica nazional-popolare ha varie cause.
Primissima fra tutte, il disagio con cui la vasta maggioranza vive il rapporto con la propria lingua nazionale: una lingua straniera mal parlata, senza più possederne una propria, salvo reliquie di dialetto mutuate dalle televendite di materassi o cyclettes. Queste non-lingue, che di nuovo imprigionano gran parte degli italiani in un provincialismo asfittico orgogliosamente ostentato, come si sa vengono oggi lodate come esempio di «radici» e remote origini minacciate dalla temutissima globalizzazione. La quasi inesistente frequentazione di quella stessa lingua nazionale si manifesta nella lettura e nella scrittura. Nessuna lingua vivente moderna si affida più alla sola trasmissione orale – da noi ormai quasi solo televisiva: per molti bambini italiani, al petto di genitori che ruttano o grugniscono più che parlare, le uniche occasioni di intendere una frase articolata sono solo televisive.
Potrei continuare nell’elenco, ma voglio un attimo soffermarmi su un quid in più, tutto nostro, e difficilmente definibile. Potrei chiamarlo, la volontà di non-sapere, ossia: «Ecché me frega a’mmé!». Di recente, mi è capitato di dover coordinare in una ricerca un gruppo di studenti universitari, metà italiani e metà tedeschi. Tra i tedeschi vi sono anche una ragazza di origine turca e una iraniana. Tutti i tedeschi, incluse le due ragazze, perfettamente trilingui, si esprimono benissimo in inglese, lingua scelta come medium comunicativo.
Con gli italiani, proprio non c’è verso. Richiesti di spiegare perché, tutti mi hanno risposto: «Abbiamo avuto pessimi insegnanti». Verissimo, sono gli stessi, o una continuazione degli stessi, che ho avuto anch’io. Ma le sei lingue che parlo, leggo e scrivo le ho imparate per volontà di comunicazione, curiosità e conoscenza. Le ho imparate vivendo, leggendo, scrivendo, viaggiando e trombando. Per volontà, o forse meglio, per intenso fisico piacere di conoscere il vasto e splendido mondo.