Il guardaroba segreto di Frida Kahlo
Sono tante le ragioni che rendono interessante la vita di Frida Kahlo, nata nel 1914 e morta quarantasette anni più tardi. In Messico è nota come un tesoro nazionale, nel mondo è la martire immacolata nell’arte, la sua immagine onnipresente è diventata l’emblema di un’icona immortale. La sua fama vaga nelle ombre di terribili sofferenze fisiche ed emotive, come un avatar di libertà e coraggio. Indiscutibile la sua impronta femminista, anche se non ha mai lottato per una causa comune con le donne, ma, da sola, per se stessa. Il marito, Diego Rivera, la giudicò una pittrice migliore di lui, Picasso confessò di non essere capace di dipingere un volto come quelli di Frida. Il poeta teorico del Surrealismo, André Breton, celebrò la sua arte con entusiasmo descrivendola come "un nastro intorno a una bomba". Lei, in una lettera esplosiva, avrebbe definito quasi tutti i surrealisti come un gruppo folle di figli di puttana.
Sperava in una fine serena e senza ritorno “aspetto felice la partenza e spero di non tornare mai più”, sono questi i pensieri tratti dalle pagine di un diario colmo di umorismo e di fantasia: il suo autoritratto letterario, dove negli ultimi anni le parole scritte trasformarono gli eventi drammatici in una rassegna di memorie surreali. Sensazioni trasmesse alla carta, mentre dietro le sofferenze proliferava una creatività inesauribile.
Pittrice geniale e visionaria, tra le figure dell’arte che hanno affascinato il mondo, sedotto anche dal carisma e dal temperamento, dal suo stile unico ed eccentrico. Dopo la sua morte avvenuta nel 1954 per un’embolia polmonare, Diego Rivera, chiuse tutto il suo guardaroba in una stanza della casa blu a Città del Messico, la stessa che un giorno diventò un museo. Per volontà dello stesso sarebbe dovuta rimanere sigillata per almeno quindici anni. La chiusura si prolungò fino al 2004, quando il museo decise di catalogare i contenuti.
In quell’occasione fu invitata anche la fotografa giapponese Ishiuchi Miyako per documentare le reliquie, e chi se non lei, la tenebrosa strega della pellicola, del cambiamento inevitabile nella struttura del tempo, che ha costruito una carriera sopra una delle rappresentazioni più personali del Giappone del dopoguerra, sulle parti del corpo umano, le cicatrici e su tutte le cose create dall’uomo legate al decadimento: ritratti dell’abbigliamento e oggetti di persone scomparse, come la madre e le vittime di Hiroshima.
Le sue fotografie sono contenitori di ricordi appesi nel vuoto in una tetra interpretazione del mistero delle realtà oggettive. L’aspetto incompleto della sua opera non permette mai di penetrare in fondo l’oggetto, lasciando un residuo d’incomunicabilità che stimola emozioni nello spettatore.
Il progetto attuale è stato chiamato “Frida” e l’archivio fotografico è in mostra dal 14 maggio al 12 luglio, a Londra, presso la Michael Hoppen Gallery, che dagli anni Novanta è conosciuta per aver adottato la strategia di nutrire le carriere di artisti emergenti, esponendoli insieme ai maestri della fotografia del ventunesimo secolo.
Omaggio allo stile, rovistando nel guardaroba segreto di una donna dal vigore morale forte e capace di accogliere il destino. Esposti abiti, usati per nascondere le disabilità di cui soffriva, busti che Frida Kahlo indossò dopo essere rimasta invalida a causa di un incidente, decorati dal suo tocco inconfondibile. Occhiali, scarpe e la protesi che iniziò a portare nel 1953 dopo che le fu amputata una gamba.
Gli scatti, catturati con la luce naturale, sono destinati a un inventario e possono lasciare lo spettatore perplesso ma tutte queste ruvide costruzioni, insieme creano un ritratto composito di una donna che ha usato la moda per incanalare le sue difficoltà fisiche in una proclamazione coraggiosa d’identità, forza e bellezza. Inizia così l’ennesimo racconto espositivo che porta il suo nome. In un guardaroba nascosto, nelle fragili tracce di una grazia eccentrica, di una vita plasmata nelle frontiere delle convenzioni e dei princìpi morali, che ancora oggi scorre nella memoria collettiva, come una diga inesorabile contro il fiume del tempo.