Il silenzio come un grido
Quando parlo del silenzio non intendo il silenzio della propria voce, un silenzio rinunciatario, complice, passivo, ma attivo e reattivo dentro la forma dell'opera. Parlo del silenzio come di una materia, come un grido. Una presenza e un gesto oggi necessari all'interno di un discorso sull'arte e, anche se potrà sembrare un paradosso, un modo di assumere una posizione. Una reazione e un rifiuto di quel linguaggio inaccettabile che fa del clamore demagogico, della spettacolarità, del gratuito e della superficialità il principale obiettivo.
Il silenzio è un modo di rendere imprendibile il pensiero, un segno di fermezza, poiché silenzio non significa solo silenzio, ma significa anche non concedersi e non concedere nulla. C'è l'esigenza che l'arte di oggi, in gran parte asservita, esca da molti compromessi e ambiguità. Invece di attardarci attorno a obsolete e vacue forme stilistiche, dovremmo prendere coscienza di una nostra globale condizione tragica e sentirci piuttosto come suppliziati che chiamano attraverso le fiamme. Questo asservimento credo sia principalmente alla base della demoralizzazione attuale e riguarda, appunto, una forma di cultura che si sottrae al dover essere tale. Invece di identificarci con disinvoltura in una cultura che non coincide con la vita e anzi fatta per dettare legge alla vita, dovremmo forse riflettere e prendere coscienza, ad esempio, che il mondo ha fame e che non si preoccupa di questa sedicente cultura. La cosa più urgente non mi sembra l'ubriacarsi in quella cultura dell'effimero la cui esistenza, per usare le parole di Antonin Artuad, “non ha mai salvato nessuno dall'ansia di vivere meglio”, ma estrarre da ciò che crediamo sia davvero e profondamente la cultura o l'arte, idee la cui intensità e forza siano pari a quella della fame. Per un artista l'arte è l'unica, silenziosa, forma di esistenza e resistenza. Per la società, per quella cultura dell'effimero di cui parlavo e nella quale ci rifiutiamo di riconoscerci, la poesia e l'arte che amiamo, che difendiamo e attraverso le quali ci opponiamo, sono parole spesso dimenticate. Sono problematiche, pongono domande, non danno risposte, offrono solo dubbi. Per chi ha una responsabilità politica tenerne conto, difenderle come un dovere e sentirle come un bene, significa accettare un rischio, nella consapevolezza che un bene spirituale è, in sé, una ricchezza, che “cultura” è essenza di benessere. Noi abbiamo bisogno di questa arte.
C'è un'eredità spirituale che non deve essere dissipata. Un dovere e una conseguente responsabilità che gli artisti devono assumersi; non smarrire il senso profondo del proprio passato artistico, storico e morale, perché dentro questa dignità è scritto tutto e solo quello di cui abbiamo veramente bisogno: una verità. L'arte deve ritornare ad essere arte, tornare a parlare al cuore dell'uomo. Nell'infanzia del tempo l'arte fu preghiera. Poco è rimasto di quella infinita bellezza. Ora non siamo più nemmeno capaci di pregare. Camminiamo come ciechi tra le rovine.