Ecco cosa significa Jihād
Dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre alle Twin Towers le discussioni attorno al mondo arabo-islamico hanno varcato i confini delle facoltà di orientalistica. La comunicazione mediatica, con una copertura costante degli eventi, ha fatto entrare nella nostra quotidianità molti concetti tipici della religione islamica.
In particolar modo la parola “Jihād” ha fatto capolino nel vocabolario di tutti creando una certa confusione da molti punti di vista. Proviamo ora a fare brevemente chiarezza, mostrando i tanti significati del termine in questione.
“Lanciatevi dunque in battaglia, armati con armi leggere, armati con armi pesanti! Combattete con i vostri beni e con le vostre persone sulla via di Dio! Questo è il meglio per voi, se voi lo sapeste!”. Corano, Sura della Conversione, versetto 29.
Il Corano in più occasioni fa riferimento al “jihād” e questo è piuttosto ovvio perché l’Islam fin dalle origini ha avuto a che fare con la guerra. Tuttavia la teologia araba è molto complessa e una traduzione semplificata come “guerra santa” non copre tutti i significati. Il jihādè:un’esperienza multiforme tra mistica, politica, azione militare, condotta morale e spiritualità.
La parola significa “sforzo su di sé”, alla ricerca di un perfezionamento morale e dunque religioso. L’origine è da ricercare nel diritto divino e le connotazioni maggiormente sviluppate sono almeno tre: lotta con se stessi, lotta contro gli infedeli e contro i cattivi musulmani. La dottrina islamica classica, basata su Corano e Sunna, forma tali significati per avvicinarsi al modello fondato sull’azione dei primi quattro califfi immediatamente successivi al profeta. In particolar modo la “lotta con se stessi” è l’attenzione che il singolo fedele deve tenere durante la propria vita per rendere grazia a Dio.
Come spiega l’islamista francese Bruno Etienne: “La lotta, non solo contro gli infedeli, ma anche agli stessi musulmani, è per annunciare al mondo intero il Sigillo della profezia e realizzare lo Stato islamico mondiale”.
Questo pensiero deriva dalla pretesa di universalismo insito nell’Islam dove Muhammad è considerato il “Sigillo della profezia” proprio perché la chiude e la perfeziona.
Con IbnTaymiyya, giurista e teologo del 1300, si assiste ad un salto di qualità. Specialmente tra le correnti più tradizionaliste, il jihad viene posizionato al di sopra dei cinque pilastri (testimonianza di fede, preghiera rituale, elemosina, Ramadan e pellegrinaggio a La Mecca), almeno fino a quando tutto il mondo sarà convertito all’Islam.
Giuridicamente parlando l’azione armata viene permessa sia in vista dell’espansione sia della difesa, il “jihād” in questo senso è un potente mezzo per liberare il mondo dall’idolatria e restaurare il regno dell’Islam. La lotta si espande anche ai governi musulmani che hanno abbandonato i dettami religiosi e chiunque cerca una separazione tra dimensioni, temporale e spirituale, deve essere riportato sulla retta via. Il ripetuto riferimento alla religione nel tentativo di definire il politico crea una denominatore comune. Parlare un linguaggio religioso, in una società in cui la giurisprudenza è data dalla parola di Dio, è un potente appiglio all’unità della comunità. Lo Stato in un sistema del genere è una struttura che viene accettata solo se non prende decisioni che vanno contro la legge divina.
“O voi che credete, non siate come infedeli che dicono dei loro fratelli partiti a viaggiar sulla terra o a fare incursioni: ‘Se fossero rimasti qui con noi non sarebbero morti, non li avrebbero uccisi!’ [..] Dio fa vivere e uccide, Dio osserva tutto ciò che fate. E sia che siate stati uccisi sulla via di Dio o siate morti, il perdono di Dio e la Sua misericordia sono migliori di tutte le loro ricchezze e, che moriate o siate uccisi, tutti sarete adunati innanzi a Dio”. Corano, Sura della famiglia di Imran, versetti 156, 157, 158.