Tullia, la più abbietta delle puttane

Cortigiana dalla bellezza rifulgente e raffinata. Figlia di una prostituta ferrarese, Giulia Campana, e frutto dei rapporti incestuosi presumibilmente consumati con il cardinale Giulio d’Aragona. Ufficialmente Tullia risulta all’anagrafe figlia di Costanzo Palmieri d’Aragona, cugino del porporato e in grado, con meno problemi, di dare il medesimo cognome alla creatura.

Siamo nel XVI secolo, Tullia trascorre la sua infanzia a Roma, poi a Firenze e a Siena, ma sua madre, notando le doti di bellezza ed eleganza della figlia, decide di riportarla a Roma, città molto più aperta e piena di prospettive per il mestiere che Giulia ha in mente per sua figlia.

È proprio a Siena che Tullia «imparò a parlare sanese» poi «vedendo la madre che costei haveva di virtù principio grande considerò che Roma è terra da donne massime che ella sapea l'usanza della corte e così l'ha fatta cortigiana.» I molti agi concessi dal cardinale d’Aragona hanno permesso alla giovane di ricevere un’ottima educazione, di addestrarsi in tutte le arti della seduzione, senza tralasciare gli studi, perché una cortigiana non può essere una donna rozza. Impara a scrivere e ad argomentare in latino, alla pari di un degno letterato, tanto da poter competere in qualsiasi tenzone con chiunque del suo tempo.

Ed è proprio la raffinatezza a distinguere sin da subito Tullia dalle altre colleghe, seppur della stessa fama. Una cortigiana che antepone l’eleganza e il bel parlare alla bellezza fisica. Tullia è donna raffinata, colta. Del suo sguardo ammaliano gli splendidi occhi, ma non si può considerare una bellezza prorompente. Eppure la sua alcova, che è nello stesso tempo un raffinato salotto letterario, ha moltissimi frequentatori, soprattutto uomini di cultura e poeti. Tant’è che Tullia si guadagna il titolo di cortigiana dei poeti. Nella sua casa non si dispensa solo sesso, ma si animano intense discussioni che vedono coinvolti veri e propri gentiluomini. Personalità come Filippo Strozzi, il cardinale Ippolito de’ Medici e scrittori alla stregua di Bernardo Tasso o Sperone Speroni che addirittura fa di lei la protagonista del suo Dialogo dell’amore. Lei stessa ama scrivere, nonostante chi faccia il suo mestiere debba scontrarsi contro maldicenze di ogni sorta quando osa provare a misurarsi come altro da una semplice sgualdrina, seppur d’alto bordo.

Tullia scrive in prosa e in versi.  Si cimenta anche nella riscrittura in ottave del popolare Guerino il Meschino.

Con ogni probabilità rimane a Roma fino al 1531, anno in cui si reca a Ferrara. Qui conosce Girolamo Muzio, autore degli Ecatommiti. Suo il merito o la colpa di aver descritto con dovizia di particolari le motivazioni della brusca dipartita della cortigiana da Roma. Pare infatti che dimorasse a quei tempi nella città eterna un tedesco, un certo Gianni, lurido e lercio, un uomo deplorevole e ributtante. Innamorato di Tullia ottiene di trascorrere una settimana intera d’amore con lei, dietro pagamento di un compenso da far girare la testa: cento scudi! Tullia, a cui il denaro ovviamente piace, accetta ma non  riesce ad andare oltre una sola notte con il tedesco, a quanto pare effettivamente nauseabondo.

La notizia, come sempre avviene in certi ambienti, si è sparsa rapidamente provocando lo sdegno dei letterati e degli altri uomini di cultura avvezzi a  frequentare la rinomata cortigiana. Viene macchiata di infamia e costretta a partire. È l’inizio di un destino errabondo per la nostra, nomade, in fuga da una città all’altra della penisola. Nel 1543 si trova a Siena, quando sposa un certo Silvestro Guicciardini, probabilmente solo per potersi tutelare dalle severi leggi in materia di prostituzione. Una cortigiana honesta deve essere maritata! Pare infatti che proprio a Siena la cortigiana fosse perseguitata dagli Esecutori Generali di Gabella che l’accusano di vestire e portare ornamenti vietati alle meretrici dagli statuti del comune. Subisce anche un processo dal quale fortunatamente esce indenne.

Nel 1545, comunque, Tullia, nuovamente migrante, si reca a Firenze dove ha modo di stringere numerose amicizie con letterati di tutto rispetto. Le maldicenze però non la abbandonano perché viene perseguitata dalle leggi sui costumi e sugli ornamenti et habiti degli huomini e delle donne.

Il problema è che Tullia si crede una poetessa, una donna di cultura e dimentica spesso di che pasta è fatta in realtà. Dimentica il suo essere prima di tutto cortigiana, e a una meretrice non è concesso di non distinguersi nel vestire da una nobildonna. Perciò, quando viene convocata, nel 1547, dal magistrato per ottemperare alle leggi sulla prostituzione, lei è costretta a presentarsi con qualcosa di giallo sul vestito, che servisse per distinguerla dalle gentildonne oneste.

Poco dopo riparte per Roma. Qui nel febbraio del 1547 muore la sorella Penelope, non ancora quattordicenne e, subito dopo, la madre Giulia.

Tullia quasi certamente rimane a Roma fino alla sua morte, avvenuta nel marzo del 1556. Fissa la sua dimora nel rione Trastevere, in casa dell’oste Matteo Moretti da Parma e qui, il 2 marzo del ’56  detta le sue ultima volontà nel testamento. Una delle sue descrizioni più belle la fornisce Girolamo Muzio, sinceramente innamorato della raffinata cortigiana.

Di lei dice, e soprattutto dei suoi occhi:

«.....occhi belli,

occhi leggiadri, occhi amorosi e cari,

più che le stelle belli e più che il sole...».

i capelli finissimi di un biondo oro, esaltati spesso da' suoi ammiratori, tra i quali il cardinale Ippolito de' Medici, al quale la porpora non impediva di bruciare innanzi alla bella Aragonese il suo granello d'incenso cantando:

se 'l dolce folgorar de i bei crini d'oro,

e 'l fiammeggiar de i begli occhi lucenti,

e 'l far dolce acquetar per l'aria i venti

co 'l riso, ond'io m'incendio e mi scoloro . . .

Dedica a Tullia le sue egloghe Amorose, senza tacere l’ardore da cui si sente struggere per la donna. Tullia però non si lascia domare facilmente e non le si addice concedersi alle bramosie di un solo amante. Muzio, così, ben presto viene dimenticato e sostituito dal Bentivoglio, e quest’ultimo, subito dopo, da Bernardo Tasso. A Firenze poi si barcamena tra il Varchi, Ippolito de’ Medici, lo Strozzi, e molti altri.

La facilità con cui Tullia si getta da un amante all’altro rinvigorisce ancor più le malelingue, tanto che nel libello La tariffa delle puttane di Vinegia, viene definita come «la più abbietta delle puttane

A dispetto di quello che la sua vita e la sua condizione potrebbero testimoniare, Tullia arde per un amore tutto spirituale, fatto di animo e dedizione, un amore secondo la più pura concezione petrarchesca, l’intimo ardore di lasciare ai posteri qualcosa che vada al di là del suo aspetto terreno, del puro corpo. Per questo cerca di coprire la cortigiana con la poetessa, perché è quello che sente di essere nella sua essenza.

XXXIII. A Girolamo Muzio

Fiamma gentil che da gl'interni lumi

con dolce folgorar in me discendi,

mio intenso affetto lietamente prendi,

com'è usanza a tuoi santi costumi;

poi che con l'alta tua luce m'allumi

e sì soavemente il cor m'accendi,

ch'ardendo lieto vive e lo difendi,

che forza di vil foco nol consumi.

E con la lingua fai che 'l rozo ingegno,

caldo dal caldo tuo, cerchi inalzarsi

per cantar tue virtuti in mille parti;

io spero ancor a l'età tarda farsi

noto che fosti tal, che stil più degno

uopo era, e che mi fu gloria l'amarti.

 

 

07-10-2014 | 16:06