Il senso del disincanto in Cechov

Pietro Iannibelli

Il disincanto sembra essere uno stato d’animo particolarmente adatto alla penna di uno scrittore, ma in realtà non si presta più di tanto alla prassi della letteratura, poiché, per trattarlo con la dovuta esaustività, sarebbe opportuna una forma di riserbo e di pudore che forse è estranea alla prosa. In pochi sono riusciti a rappresentarlo nelle loro opere con la delicata discrezione che esige, e probabilmente colui che più di tutti ha saputo farlo in modo credibile e appagante è Anton Cechov (1860/1904).

Lo scrittore russo, grazie a una straordinaria, intuitiva, conoscenza dell’animo umano, seppe meravigliosamente raccontare l’intero spettro dei sentimenti e delle emozioni che possono toccare il cuore di un uomo, dall’amore all’indifferenza, dalla felicità alla disperazione. Tuttavia, ciò su cui sembra aver indugiato con particolare insistenza nei suoi scritti, è lo stato che si è soliti designare col nome, appunto, di “disincanto”, parola che, dice il vocabolario, significa propriamente liberazione da un incantesimo, superamento di un’illusione e, per estensione, di una visione distorta della realtà.

Si potrebbe aggiungere che, nel suo senso figurato, il disincanto è l’effetto di uno smascheramento, la conseguenza di una sorta di tremenda agnizione sui generis. Il giorno in cui la vita si mostra nella sua agghiacciante oggettività agli occhi di un uomo, nuda degli ornamenti con i quali gli si era palesata nell’ingenua giovinezza, ecco che allora, in lui, si produce il disincanto, il quale può essere paragonato a una insanabile e profonda ferita che, presto, diviene il filtro doloroso attraverso il quale si percepisce il mondo. Le illusioni crollano, le speranze perdono la loro luce, resta soltanto il rimuginio delle aspettative che si nutrivano in passato e che il presente nega, le quali diventano ombre, spettri, parvenze tormentatrici.

Nei suoi scritti Cechov narrò con commovente intensità e calore umano tale stato d’animo, insieme all’amarezza, al rimpianto e al dispiacere che esso porta con sé. Il racconto intitolato Il racconto della signorina N.N. ne è un chiaro esempio.

Questo breve testo, nel quale la protagonista, Natal’ja Vladìmirovna, narra i fatti in prima persona, inizia con il ricordo di un pomeriggio lontano, in campagna. Al tempo della falciatura, lei e un amico di famiglia, Pëtr Sergéič, si recarono a cavallo alla stazione postale per ritirare la corrispondenza. Sulla strada del ritorno il cielo si rannuvolò e violente raffiche di vento annunciarono l’imminenza di un temporale. I due, tra i quali nel corso della passeggiata era sorta un’intima complicità, felici, spronarono i cavalli al galoppo. Quando arrivarono trafelati a casa, cominciarono a cadere le prime gocce di pioggia: trovarono riparo nei pressi della scuderia, dove l’odore di fieno, a causa del’umidità, si era fatto pungente. Lì, Pëtr Sergéič, cogliendo la spensieratezza del momento, dichiarò il suo amore disinteressato a Natal’ja Vladìmirovna: «“Io vi amo” disse. “Vi amo e sono felice perché vi vedo. So che non potrete diventare mia moglie, ma non voglio nulla, non mi occorre nulla. Mi basta che sappiate che vi amo. Tacete, non rispondete, […] e permettetemi di guardarvi”».

La differente condizione sociale impediva a Pëtr Sergéič, che era soltanto il giudice istruttore del villaggio, di ambire realisticamente alla mano di Natal’ja Vladìmirovna, la quale invece apparteneva a una famiglia illustre. Lei tuttavia accolse con gioia le parole dell’amico: «Mi sentivo felice. Cominciai a ridere per la contentezza e corsi in casa, sotto la pioggia scrosciante; e anche lui rise e a saltelloni mi seguì. Facendo gran rumore, come bambini, fradici, senza fiato, battendo i piedi sulle scale, irrompemmo nelle stanze».

Dopo cena, Natal’ja Vladìmirovna, gaia, stordita dalla serena intensità di quella giornata, si ritirò nella sua camera. «Andando a coricarmi, accesi una candela e spalancai la finestra, e un sentimento indefinibile si impadronì della mia anima. Mi ricordai di essere libera, sana, ricca, di avere un cognome noto, di essere amata, ma specialmente di essere di casata illustre e ricca, com’era bello questo, mio Dio! Più tardi, mentre nel letto mi rannicchiavo tutta per il fresco che si insinuava in me dal giardino insieme alla rugiada, cercai di capire se amavo Pëtr Sergéič o no… e senza esservi riuscita mi addormentai. Quando al mattino vidi sul mio letto le chiazze tremolanti del sole e le ombre dei rami del tiglio, nella mia mente risuscitarono vivamente gli avvenimenti del giorno prima. La vita mi parve ricca, varia, piena di bellezza. Canticchiando mi vestii in fretta e scappai nel giardino… E che cosa avvenne dopo? Dopo, nulla».

Qui la vicenda di Natal’ja ha raggiunto il punto più alto: dopo la serie ascendente costituita dalla cavalcata, dalla dichiarazione d’amore e, infine, dal vivo sentimento della pienezza della propria vita presente e futura, comincia, per lei, l’annunciato anticlimax.

Trascorrono nove anni, Natal’ja Vladìmirovna è nella sua casa di città. Riflette malinconicamente sulla sua vita e pensa a Pëtr Sergéič, il quale ogni tanto non manca di farle visita. In passato, in qualche occasione, le ha ribadito ancora il proprio amore, ma senza sortire gli effetti di un tempo: le sue parole sono diventate aride, smorte e senza poesia. Natalja in se stessa lo incolpa di essersi arreso dinanzi a quel muro sociale che li separava e di aver ceduto. Avrebbe dovuto abbatterlo, invece di accettare lo status quo e di tirarsi, alla fine, timidamente indietro. Lei, sentendo il vuoto attuale della sua vita, paragona nella sua mente il presente al passato, si dice: «Ero amata, la felicità era vicina, sembrava vivesse alle mie costole; e io passavo la vita canticchiando, senza sforzarmi di comprendere, senza sapere che cosa mi aspettavo, che cosa volevo dalla vita, e intanto il tempo passava, passava… Passavano accanto a me uomini con il loro amore, si dileguavano le giornate limpide e le notti tiepide, cantavano gli usignoli, l’aria odorava di fieno, e tutto questo che è caro, meraviglioso nel ricordo, in me, come in tutti, passava rapidamente senza lasciare tracce, senza essere apprezzato e si dileguava come la nebbia… Dov’è ora tutto questo? Mio padre morì, io invecchiai […] e ora vedo davanti a me una pianura sconfinata, deserta: e su questa pianura non c’è anima viva, e laggiù all’orizzonte soltanto buio e paura…».

In quel momento suonano il campanello, è Pëtr Sergéič che è passato a salutarla. Anche lui è invecchiato. Cammina un po’ curvo, non le parla più d’amore, non ama il suo impiego, si lamenta sempre di qualcosa, critica la società, non si aspetta più nulla dalla vita e vive senza gioia. Siede con lei vicino al caminetto. Lei gli chiede: «E allora?», «Niente», risponde lui. Mentre il bagliore del fuoco gioca sui loro volti, restano in silenzio. È Natal’ja a interromperlo: «Mi sono ricordata del passato, e d’un tratto le mie spalle si sono messe a sussultare, la testa si è inclinata, e sono scoppiata in un pianto amaro. Ho provato una pena intollerabile di me stessa e di quell’uomo, e ho desiderato appassionatamente quello che è passato e che la vita ormai ci rifiuta. […] Singhiozzavo forte, premendomi le tempie, e mormoravo: “Dio mio, Dio mio, la vita è finita”».

Pëtr non le dice nulla, non la consola neppure. Quando lei lo accompagna alla porta e lo aiuta a indossare il cappotto, lui le bacia due volte la mano e sembra che stia per dirle qualcosa, ma, ancora una volta, tace. Se ne va. Natal’ja Vladìmirovna ritorna in salotto, siede sul tappeto davanti al caminetto e, dimentica di sé, fissa, con gli occhi pieni di lacrime, i carboni, i quali lentamente si coprono di cenere.

Così si conclude il racconto. Se, con un piccolo sforzo dell’immaginazione, ci si figurasse Natal’ja nella sua quotidianità, si vedrebbe una donna stanca, dal volto spento, dominata da pensieri vagamente tristi, senza molta voglia di parlare, incline a cogliere le imperfezioni e gli aspetti disarmonici delle cose, in attesa che il tempo passi. Nell’immagine finale dei carboni morenti, correlativo oggettivo della vicenda intima di Natal’ja, di Pëtr Sergéič e, forse, di tutti gli uomini, è racchiuso il senso profondo di quell’alto tradimento che la Natura matrigna perpetra ai danni dei suoi poveri figli, generando, nei loro cuori, l’inestinguibile amarezza del disincanto.

 

 

27-10-2019 | 22:28