La poesia del Barolo in autunno

Primi giorni di ottobre. Fotografia di un mattino, fuori. La luce è forte, tutto attorno boschi e montagne. Un uomo è fermo, immobile, in un luogo dove è cresciuto, lui solo, e il silenzio dei ricordi, la lana dei ricordi; maglione grezzo fatto a mano da mani di madre, che scalda più di qualsiasi altra cosa. Scalda del suo essere fatto. Milioni di respiri di chi gli ha dato la vita e lo ha cresciuto, allevato, educato. Sotto le crode di una tra le più misteriose e selvatiche catene montuose delle Dolomiti Orientali, dove ha imparato ad ascoltare il silenzio. E dove adesso osserva gli impercettibili mutamenti nelle tinte e nei colori. Quelle sfumature, ombre e riflessi delle pareti rocciose, in un continuo confronto di spazi e perimetri con il cielo. Più in basso, gli alberi, i dossi, le piane, i sentieri, i corsi d’acqua già irrigiditi dal freddo.

In montagna si impara a osservare capendo, a fissare lo sguardo, senza distrazioni, con la paura del vuoto, sussurra a sé stesso quell’uomo, sottovoce, tra un passo e l’altro, sulla strada del ritorno verso casa.

Torna a casa, quell’uomo, dal suo intimo vagare tra abeti e pini mughi verso mezzogiorno e, dopo aver consumato un pranzo frugale di zuppa di verdure e legumi, taglia la legna, la dispone attentamente in cataste ordinatissime dietro casa al sole del pomeriggio per farla asciugare e accende il grande camino al centro della stanza di quella piccola, raccolta abitazione alpina.

E poi, quell’uomo, si apre una bottiglia di vino rosso, un vecchio Barolo 1961 di una marca che nemmeno c’è più: Franco Fiorina. Avrebbe potuto scegliere la 1974 Riserva, piccola e profonda, oppure la 1982, la ricorda sempre tra le migliori mai bevute, e ricorda anche quella cena alla trattoria Il Centro di Priocca d’Alba, in ottima compagnia.

Sceglie questa 1961 e il suo pensiero va a quel tempo, a quei tempi. Prende il suo diario e rilegge un ritaglio di giornale dove ci sta un’intervista al vecchio Armando Cordero, enologo per conto di Fiorina, e memoria storica di Langa: “tutti i Barolo Franco Fiorina fino a che ho lavorato io sono frutto di un coacervo di Nebbiolo di Serralunga: Baudana e Vigna Riunda, questi ultimi Michet, di Castiglione Falletto, di La Morra e di Monforte d’Alba. Un coacervo di uve di villaggi diversi secondo gli insegnamenti di mio padre, vecchio capo cantina alla Calissano, fino all’anno ’65. Poi pigiatura con diraspatura parziale e fermentazione in vasche di cemento armato. Follature serali solo con la pompa, quindi senza i moderni aggeggi di oggi.
Steccatura a fine fermentazione alcoolica di circa 15 giorni, e mantenimento del vino nuovo sotto vinaccia fino a verso Natale. Invecchiamento per due anni in cemento e poi passaggio in botti di legno di rovere di Slavonia, abbastanza vecchie ma sane, fino alla decisione di passarlo in bottiglia. La messa in bottiglia senza chiarifiche e filtrazioni, stoccaggio a bottiglie coricate fino al momento della vendita. Questa è la storia dei grandi Barolo. Peccato che anche certi tradizionalisti l’abbiano dimenticata…
”.

Quell’uomo se ne versa un bel bicchiere, più colmo di come dovrebbe essere e ne beve un sorso generoso. Il vino parla, dentro, nei suoi pensieri.

Questo Barolo 1961, esile, elegantissimo, sottile, sussurrato è il caldo di un abbraccio forte, è un guancia a guancia con la barba ispida, è una parola non detta, pipa che arde tabacco profumato, è cuoio, pelle in concia, il buono della stalla, fieno, dimora della mucca e dei suoi vitellini appena partoriti, è tepore del respiro; è legno dolce che arde e scintilla, è muschio per il presepe, quando viene Natale, è armonia del frutto selvatico appena acerbo che raccogli dalla pianta con la scala a pioli: susina e marasca; è anche piccoli frutti del sottobosco, ribes, lamponi rossi, more di rovo e sambuco.

Questo Barolo 1961 non racconta frottole: è sincero negli ideali, nelle pochissime frasi che sussurra con la sua voce roca ma sottile. È camicia di flanella, lana grezza lavorata al telaio, calda come nessun’altra, è velluto a coste, panno.

Questo Barolo 1961 è profondità, lunghezza, eco di voce, manico dell’accetta, allisciato da mani sudate. È corpo, fisicità, rudezza.

È caldo per il freddo, è amico per le delusioni d’amore, per l’imbecillità della vita, per le nebbie della vita, perché dalla nebbia piemontese nasce ed è plasmato.

È colore rosso, incupito dal morbido blu, è riflesso, venatura scheggiata, pennellata decisa e secca.

È scrigno, eco, conchiglia, onda ritornata dopo la marea, è barca a remi nel mare.

Perché quell’uomo, dall’alto delle montagne, a volte immagina il mare, sente il suo rumore, il suo ritornare metodico e costante sulla riva, sente la salsedine muoversi intensamente come fruscio nell’aria e sente l’immensità della perdita, dell’abbandono, della lontananza. E allora, in quel pomeriggio, un vecchio Barolo 1961 è diventato il suo eterno molo, segnato dalle partenze e dai ritorni, quelli della sua vita.

 

 

14-10-2014 | 00:27