L'inafferrabile felicità

Pietro Iannibelli

Le persone di buon gusto, anche se nel corso dei secoli non è mai stata definita in modo rigoroso e pienamente soddisfacente, sanno cosa sia la bellezza, sono in grado di riconoscerla quando la vedono e ne gioiscono secondo la loro sensibilità. Essa, luminosamente, può assumere le più svariate forme nella realtà di tutti i giorni, rivelandosi in molti modi alla ricettività dell’intelletto umano: si può mostrare, infatti, come mattino radioso, cappello, statuina, Aphrodite (Bouguereau), vaso, coleottero, corallo, centro storico di Roma, melagrana, tappeto, sguardo, Salve Regina (Porpora), corpo, inferriata, clessidra, Madre e figlio (Sokurov), palma, ideogramma, levriero… oppure può materializzarsi fuggevolmente in un atto, un gesto, una movenza. Tuttavia, se si eccettua l’ineffabile bellezza a cui accennano i mistici, alla quale non si giunge che per gradi iniziatici, la più lieve e sottile tipologia di bellezza in cui ci si possa imbattere non appartiene al mondo dei sensi, ma a quello amorfo delle impalpabili astrattezze. Essa acquista “fisicità” e diviene “oggetto” per il pensiero grazie a ispirate e felicissime concatenazioni di parole, delle quali costituisce il significato ultimo. L’espressione meno impropria con la quale la si potrebbe designare è, forse, “bellezza semantica”, poiché risiede essenzialmente nei concetti e solo in minima parte è dovuta al valore fonetico degli accostamenti di parole che li esprimono. Qui di seguito si tenterà di illustrarla con alcuni esempi, anche se, in generale, l’atto di condivisione della bellezza è sempre vano, poiché questa, fondandosi sulla pura soggettività, è incomunicabile. Inoltre, trattandosi di frasi rimosse dal loro contesto e isolate, tali esempi risulteranno privi, in parte, dell’efficacia originaria per la quale erano stati scelti.

L’asserzione: «Ero immensamente quasi felice», con la quale Le Carré rende smisurata e totale l’incompletezza, rimanda a una bellezza forse un po’ spiccia, sciatta, che lascia freddi. Ma quando Borges, in visita alle piramidi d’Egitto, dopo aver preso un pugno di sabbia e averlo lasciato cadere un po’ più in là, sussurra a se stesso, con intima emozione: «Sto modificando il Sahara», eleva un gesto delicato ad evento geologico e dà forma a una bellezza piena, libera, in qualche modo numinosa. Più lieve è quella che plasma Montale con l’enjambement: «[…] il sereno / è la più diffusa delle nubi», che trasforma la calma distensione nell’estrema dilatazione delle inquietudini. In modo meno incorporeo, Cioran afferma invece: «Mi chiedono atti, prove, opere, e tutto quello che ho da offrire sono pianti trasformati», parole con cui, meravigliosamente, esprime il fatto che a monte dell’agire umano vi sia un’infelicità incurabile e, all’altro capo, l’altra faccia di questa infelicità, la vita quotidiana. Pessoa in persona e non uno dei suoi eteronimi, nei versi di un suo poema incompiuto, dichiara: «Il fluire dei giorni / e l’invecchiare di tutto, soggettivo / e oggettivo, non mi duole / perché lo sento, ma perché lo penso», ribadendo così la funesta contraddittorietà umana e ravvisando nel pensiero la vera scaturigine del dolore, concetti di alto valore estetico. Avrebbe potuto trovare sollievo, forse, nella similitudine di Zhuang-zi, il quale, con un’immagine bellissima quanto il libro in cui è contenuta, rammenta agli uomini: «La vita è come un puledro bianco che salta una scarpata: un lampo, ed è finita».

A differenza di Borges, che senza dubbio, per quel che vale, avrebbe meritato il Nobel, o di Le Carré, che senza dubbio lo meriterebbe, Peter Handke lo ha vinto per il 2019. In un’opera incentrata sulla figura della madre, scrisse:

« […] voleva studiare; perché da bambina, studiando aveva percepito qualcosa di se stessa. Era stato come quando uno dice: “Mi sento”».

Parole del genere, relative al potere introspettivo dell’apprendimento e al primo intuitivo rivelarsi della propria essenza individuale, che è una scintilla sepolta nel profondo, rimandano a un significato così bello da equivalere alle nuvole, alla Madonna della quaglia di Pisanello, a un albero di mele. Si potrebbero approfondire i motivi di questa affermazione, ma sarebbe certo o superfluo o inutile. Tuttavia, quando il lettore si appropria di costrutti simili e li “comprende”, avviene nella sua mente una sorta di spalancamento, come se cadesse una coltre: all’improvviso si sciolgono i dissidi aggrovigliati nello stomaco e si dischiudono al pensiero spazi inimmaginabili di consolazione, senso, pace... come se una divinità favorevole lo avesse sfiorato. La bellezza semantica, per il lettore, è come la gioia per l’uomo che vive: si trova parsimoniosamente disseminata qua e là, come una rara pepita, e non si sa né quando né dove capiterà di incontrarla. La sua costante ricerca rappresenta probabilmente il vero, autentico stimolo alla lettura, più della volontà di conoscenza, del desiderio di autoriconoscimento e del bisogno di affabulazione, almeno per gli uomini bisognosi di conforto rispetto alla generale ed ubiqua abiezione del mondo.  

Le parole di Handke si trovano in un’opera intitolata Infelicità senza desideri, del 1972. Non è un romanzo, ma una sorta di breve biografia della madre dello scrittore e, insieme, un singhiozzo discorsivo. La donna si suicidò quando il figlio aveva poco meno di trent’anni, lui lo apprese dai giornali. Al funerale, oltre allo scherno degli abeti indifferenti, sentì l’urgenza di scrivere di lei. Dopo una giovinezza difficile, la guerra, la povertà, violenti disturbi mentali e dolori multiformi, una sera fagocitò una gran quantità di farmaci, indossò della biancheria intima pulita, una camicia da notte che le arrivava alle caviglie, e andò a coricarsi, congiungendo le mani sul grembo. Un modo esteticamente inappuntabile di togliersi la vita, nel quale l’atto quotidiano del chiudere gli occhi e dell’addormentarsi, sublimandosi, coincide con il sopraggiungere del sonno eterno. La signora Maria era divenuta, forse, una donna che non si “sentiva” più, che non percepiva più nulla della verità di se stessa, per la quale tutto era divenuto orribile e insostenibile bruttezza, obbrobrio, schifo. Di certo, nella sua mente, per dirla con il Poeta, ogni cosa a ogni cosa aveva detto addio.

Una puntualizzazione. Dopo aver conosciuto Teresa, Jacopo Ortis tornò a casa e scrisse con trasporto all’amico Lorenzo: «Che? lo spettacolo della bellezza basta forse ad addormentare in noi tristi mortali tutti i dolori?». Ci si dovrebbe intendere il senso della parola “addormentare”… ma qualora significasse “annullare” o “sospendere per un lungo periodo”, allora, nonostante l’alto valore terapeutico che si riconosce alla bellezza nell’esistenza umana, a questa domanda trascendentale, a malincuore, si sarebbe costretti a rispondere di no.

 

 

02-01-2020 | 16:53