La lucida follia di Guido

“In tasca tengo, per lui, un pacchetto di Gauloises”. Epitaffio d’evanescenza tabagista, dono gallico velato d’azzurrognolo e stagnola, intimo appiglio amicale mai recapitato al destinatario, ricamo snob dei piaceri ultimi, probabilmente allusivo del suicidio che di lì a poco (31 luglio 1973) avrebbe riguardato l’autore stesso. Così, laconicamente in miasma, chiude il romanzo Dissipatio H.G. dell’autodidatta per troppa grazia, il bolognese (auto-esiliatosi a Varese) Guido Morselli. Fumiamoci su dunque, con quell’appagamento inquieto, tipico di chi ha testé terminato la lettura di un capolavoro eutanasico, testamentario, postumo, in grado di evocare l’epifania più annichilente: l’apparizione della scomparsa. Ultimo atto di un’attività letteraria intensa, febbrile, isolata, caparbia ma elegantemente ritrosa, qualitativamente superba - probabilmente eccessivamente raffinata per risultare in qualche modo spendibile nel secondo dopoguerra, figuriamoci oggi - quanto frustrante dal punto di vista pubblico, in particolar modo nell’indispensabile passaggio alla carta stampata: difatti tutti i manoscritti dell’autore furono respinti al mittente, zero pubblicazioni in vita (a parte due saggi giovanili), ottuso embargo fino alla morte, allorquando Adelphi prese a editarne l’opera ponendo tardivo rimedio; paradossale indifferenza generalizzata, in parte anche di natura ideologica, che assunse i vaghi tratti del complotto. Tale sospettosa freddezza da parte del clero culturale preposto alla disanima, si direbbe respingente proprio per paura di quella prosa dallo spietato retrogusto solipsista: troppo filosofico, troppo pessimista, troppo elitariamente distaccato, ombroso, analitico, matematico, in ogni modo inclassificabile e quindi inutilizzabile; anti-consolatorio si direbbe, nichilista? Antidemocratico? reazionario? Si: “La funzione delle avanguardie (in arte e in letteratura)? Preziosa, e del resto canonica: controbilanciare le accademie. In pratica le cose sono meno semplici, e meno rosee; salta fuori che le avanguardie corrispondono segretamente con le accademie. Aspirano a sostituirle. Troppo spesso ci riescono”. Romanziere senz’anima, a tratti criptico, autoreferenziale nell’eruditismo meno compromissorio coi gusti di un sistema culturale di pacche sulle spalle e di amici degli amici - soppesarono quei porporati dell’editoria. Eccoli là, nobilissimi fantasmi dietro importanti scrivanie; ad esempio Vittorio Sereni, Mario Pannunzio, Carlo Fruttero, addirittura Italo Calvino, quantomeno educato nel rispondere con un’argomentata stroncatura, tutti incredibilmente refrattari, diffidenti, colpevolmente sbadati, distrattamente ghigliottinanti, quando allora come oggi il vaticinio d’un libro si negava quasi a nessuno. Osiamo l’inosabile: Incompetenti. Così il dandy Guido Morselli, dopo l’ennesimo rifiuto assaporò il privilegio del niente, che prese la forma di una Browning 7.65 rivolta contro di sé, e del suo ultimo lascito letterario; nessuna coccarda, come per l’amato Marcel Proust e chissà quanti altri inchiostratori carbonari del tempo smascherato, ma l’eternità postuma, quella sì a Morselli non la leva nessuno.

Talvolta sbrigativamente liquidato come autore ucronico - Contro-passato prossimo descrive un diverso esito del primo conflitto mondiale, Roma senza Papa il trasloco del pontefice dal Vaticano a una villetta a schiera a Zagarolo, Divertimento 1889 la bizzarra evasione dai doveri regali di Umberto I – Guido Morselli potrebbe anche essere definito tale, a patto di togliere risolutamente di mezzo lo stereotipo fantascientifico inerente certa svagata letteratura di genere; tutt’altro, un po’ come l’Ernst Jünger di Le api di vetro, Eliopolis, Eumeswil, egli tende a manomettere il reale generando una sorta d’iperbole di verosimiglianza, mondo parallelo che inghiottite tutto e il lettore senza rimedio, facendo della Storia una malta rimodellabile. Difatti i punti di contatto con l’anarca di Heidelberg risultano evidenti, soprattutto nella prosa chirurgica, scientifica, iperrealista, attenta fino alla maniacalità descrittiva al microcosmo, così come graziata dalla capacità di fondare uno speculare macrocosmo meta o a-storico, tutt’altro che idilliaco, bensì intriso di inquietanti presagi. L’apocalisse trattenuta nella narrazione di Morselli, innervata da un pessimismo depauperato da ammiccamenti romantici e da allegorie decadentiste, anzi talvolta paradossalmente ironica, aleggia come frolla metafisica negativa, pascaliana ombra minacciosa in grado di avviluppare l’effimero tramestio della vita umana nello scialle d’incubi cinicamente plausibili. Dissipatio H.G. ad esempio – dove le iniziali puntate stanno per Humani Generis, dal neoplatonico Giamblico “evaporazione del genere umano” – si sviluppa partendo da un mancato suicidio; in prima persona la voce narrante, evidentemente quella dello stesso Morselli, dopo aver imbastito un particolareggiato reticolato d’insofferenze, svogliate tetraggini esistenziali amorose professionali domestiche, giunge al momento fatidico e alla sua immediata smentita in riva ad un laghetto di montagna: corroborato da un bicchiere di cognac e stupito dai fari di un’autovettura incongruamente puntati verso il cielo, il protagonista cambia idea. Perché mai morire, quando potrebbe sparire di colpo l’intero genere umano? (auspicio) Così, gradualmente, s’insinua uno straniante sospetto, innesco del più surreale dei viaggi metafisici. Da quella sorta di ebbra folgorazione, infatti, prende il via un sordido pellegrinaggio tra città deserte, rifugi alpini frettolosamente abbandonati, letti vuoti di vecchie amanti misteriosamente assentatesi, basi militari prive di militi, hotel senza più villeggianti e così via. C’è più nessuno, solo animali indifferenti, vegetazione trionfante e lenta decomposizione dell’armamentario civile: voci registrate di lontane segreterie telefoniche, muti interni domestici, semafori accesi tra incroci deserti, autovetture ferme, oggetti divenuti privi di senso, macchinari che stantuffano per inerzia in assenza di comandi. Quanto sarebbe piaciuto a Kafka tutto ciò? E al Kubrik di 2001 Odissea nello spazio? Lo stanco perpetuarsi degli apparati di produzione, controllo, misurazione, monitoraggio, ticchettio di una sveglia che rallenta fatalmente, nella sordida ecatombe consorziale.

“Perché sono sopravvissuto solo io? che fine hanno fatto tutti? Vi saranno sopravvissuti all’altro capo del mondo? Magari selvaggi in Amazzonia o eschimesi in Lapponia… un disastro nucleare non avrebbe risparmiato le bestie, una guerra devastante si sarebbe risolta in ruderi fumanti e fosse comuni, altre incongruenze emergono riguardo possibili epidemie, e via di congetture escatologiche. Proprio partendo da ciò e dalle (per forza di cose) introspettive domande che il protagonista si pone, Dissipatio H. G. finisce coll’essere tutt’altro rispetto alla tipica letteratura distopica. Difatti se da un lato l’evaporazione del genere umano può evidenziare l’attitudine apocalittica dell’autore, dall’altro mancano motivazioni e responsabili, moventi e indiziati a supporto da perseguire. Oltre ai cadaveri, s’intende. Seguendo gli spostamenti inconcludenti del protagonista – inane padrone del mondo e ultimo uomo saturo di provviste - si coglie una sensazione ambivalente, qualcosa di alienante che contempla sia l’inconfessabile appagamento del misantropo che l’inevitabile panico, smarrimento in una libertà claustrofobica con implicazioni allucinatorie. Ricordi, percorsi a ritroso, girotondi, accertamenti sempre vanificati dall’irreperibilità di chicchessia, elucubrazioni leopardiane, soliloqui geopolitici, clinici referti esistenzialisti, minute perlustrazioni di salotti e nozionistica varia, sbattono come mosche sul vetro, rumoreggiano come finestre di una casa abbandonata in balia dell’imminente bufera. Sconquasso che non avrà mai luogo, perché già accaduto senza apparenti traumi, ma qui il presentimento calato in quiete fornisce l’indizio per un’altra fondamentale, quanto ben mimetizzata, domanda: il genere umano s’è veramente dissolto nel nulla, lasciando un solo superstite, stupefatto cronista, diarista del tempo ultimo? O forse è proprio quest’ultimo ad essere già morto, conferendo così alla narrazione l’interpretazione opposta, quella di una testimonianza visionaria dall’aldilà, rendicontazione onirica, già ultraterrena? La lucida follia di Guido Morselli - coltissimo asociale, scienziato diffidente, monaco benestante, altero outsider sempre antiretorico – lascia in sospeso qualsiasi risposta; un po’ come quel pacchetto di Gauloises, confidenzialmente destinato al dottor Karpinsky, figura archetipale del vecchio guaritore, ultimo amico immaginario morto prima della dissipatio. S’incontreranno certamente i due da qualche parte, in altre dimensioni, mentre a noi finti superstiti resta questa sublime vendetta letteraria di Morselli - vittima degli uffici preposti e sterminatore di mediocrità – eredità enigmatica per non essere mai stato pubblicato.

 

 

 

 

02-07-2019 | 08:45